lunedì 12 dicembre 2016

Natale 2016: le mie letture da caminetto


Festività e ferie sono quelle occasioni in vista delle quali si fantastica, tra le tante cose, sulle letture da fare, con il rischio di stilare liste immense e procurarci quantitativi di libri che nemmeno in un semestre riusciremmo a fare fuori.
Purtroppo non sono immune da questa complessa sindrome, che credo, anzi, si sia aggravata da quando ho preso la pessima abitudine di staccarmi per molto tempo dalla lettura per riprendere a farlo poi in modo quasi traumatico, ma quest’anno mi sono davvero contenuto.
Resomi conto di essere ben avviato a terminare l’intramontabile “I Fratelli Karamazov”, cominciato a leggere a gennaio e interrotto a più riprese per altri testi, ho preso in mano “Cowboys & Indians” di Joseph O’Connor, romanzo acquistato online due anni fa e mai letto. O meglio, iniziato e sospeso dopo sei pagine (dentro c’ho trovato il segnalibro utilizzato all’epoca) e mai ripreso perché presumo in cerca di altre tipologie di letture quando ne ho avuto l’opportunità.  
Cowboys & Indians è il romanzo d’esordio di Joseph O’Connor, fratello della musicista Sinèad, autore de “Il rappresentante”, che ho letto con grande piacere molti anni fa, e di “Stella di mare”, il cui successo lo ha imposto all’estero come uno degli scrittori irlandesi contemporanei più influenti. “Eddie ha vent'anni, una maestosa cresta da mohicano e un'inattaccabile fiducia nelle proprie capacità. Punk della prima e dell'ultima ora, sbarca a Londra in cerca di fortuna dalla Dublino middle class, forte di un sedicente talento musicale e di una sfrontata egolatria. Comincia cosí una stralunata educazione sentimentale tra bevute colossali e fidanzate neurolabili, in una Londra caotica e decrepita che nemmeno si accorge di lui. Tra una disillusione e una sconfitta Eddie andrà avanti macinando un eccesso dietro l'altro senza che la benché minima consapevoleza riesca a scalfirlo” (einaudi.it).
Con il romanzo di O’Connor nello zainetto ci sono finiti i primi due numeri di Tokyo Ghoul e la prima ristampa di Soil, entrambi acquistati recentemente online a seguito di una dura selezione tra alcuni fumetti e manga che cercavo da un po’ di tempo.
Tokyo Ghoul è un manga di grande successo scritto e disegnato da Sui Ishida, pubblicato in serie sulla rivista Weekly Young Jump da settembre 2011 a settembre 2014 e, sull’onda del successo riscontrato, adattato anche in formato anime, andato in onda in Giappone da luglio a settembre 2014.
La storia segue quella del protagonista, Ken Kaneki, studente universitario appassionato di lettura che segue Rize, affascinante coetanea conosciuta in un bar, in un luogo isolato dove viene ferito gravemente dalla stessa, in realtà un ghoul, mostro che può mangiare soltanto carne umana, che, prima di poterlo divorare, muore colpita da una serie di travi d’acciaio precipitate da un edificio in costruzione alle loro spalle. Ken, trasportato d’urgenza in un ospedale, viene salvato da un disperato tentativo di trapianto di organi da parte del chirurgo che lo soccorre che, senza autorizzazione alcuna, li prende proprio dal corpo di Rize. Scoprirà presto di essere diventato anch’egli un ghoul, anzi mezzo ghoul e mezzo umano, e che questi mostri infestano Tokyo cacciando gli umani ognuno del proprio territorio.
Tra il recupero di idee passate (anche cinemtografiche), trovate fantasy e tratti horror, la storia sembra promettere bene.
Nello zainetto c’è finito anche la raccolta n.1 di Soil, manga scritto e realizzato da Atsushi Kaneko e distribuito in Italia da Panini Comics. Si tratta di un giallo che spazia tra il soprannaturale ed il poliziesco tradizionale e si sviluppa sulle indagini condotte dai detective Yokoi e Onoda sulla misteriosa scomparsa di una famiglia nella perfetta cittadina che da’ il nome alla saga.  
Un fumetto (2004) di notevole successo che ha ispirato anche un dorama trasmesso in Giappone dal 5 marzo al 23 aprile 2010.

E magari al ritorno di ricorderò anche di recuperare “Non ora, non qui”. L’ho visto a casa dei miei in estate ed ero curioso di riprenderlo, ormai ingiallito, dopo averlo abbandonato almeno 14 anni fa (prezzo in lire ed euro). Si tratta del primo libro di un acerbo, ma già sontuoso artista della parola, Erri De Luca, con cui rievoca la sua infanzia trascorsa a Napoli. Potere alle parole.

sabato 3 dicembre 2016

Consob: arriva l'arbitro finanziario


Dopo quello bancario arriva l’arbitro finanziario.  
Istituito dalla Consob lo scorso 3 giugno sulla base della delibera n.19602 del 4 maggio 2016, l'Arbitro per le Controversie Finanziarie (ACF) si occuperà di risolvere in via extragiudiziale i contenziosi tra chi investe e gli intermediari su dossier fino a 500mila euro con profili di inadeguatezza nei servizi.
Il nuovo sistema di risoluzione extragiudiziale si caratterizza per l'adesione obbligatoria degli intermediari e per la natura decisoria della procedura e tratterà tutto ciò che non riguarda l'operatività degli istituti nei rapporti con i clienti (mutui, conti correnti, carte di credito e debito), che resta a carico della vigilanza creditizia con l'arbitro bancario.  
L'ACF, previsto dalla direttiva Ue 2013/11, spiega la direttiva Consob, è lo strumento più agile per risolvere le controversie “relative alla violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza e trasparenza cui sono tenuti gli intermediari nei loro rapporti con gli investitori nella prestazione dei servizi di investimento e di gestione collettiva del risparmio" in tempi inferiori a 180 giorni (90 giorni dal completamento del fascicolo) e senza vie legali.   L'accesso all'Arbitro, cui "potranno essere presentate anche controversie che riguardano i gestori dei portali di equity crowdfunding”, è del tutto gratuito per l'investitore e la sua piena operatività, stabilita con la delibera n°19783 dello scorso 23 novembre, partirà dal 9 gennaio.

martedì 15 novembre 2016

Trump alla Casa Bianca: ma quanto siamo davvero colpiti?


Le letture (e le riletture) della vittoria di Donald Trump alla corsa per la Casa Bianca spopolano in tv e sul web. Nel primo caso, il fenomeno mi ha aiutato a vedere (e rivedere), per esclusione, qualche bel film, nel secondo a concedere maggior tempo a libri e fumetti.
L’affermazione elettorale del “personaggio” Trump non può comunque lasciare indifferenti media e mondo intero, ma se sessismo, razzismo, rimpianti per i tempi che furono, violenza verbale e minacce di muri e aggressioni militari insieme sappiamo garantire percentuali di consenso sempre a doppia cifra nell’intero occidente, tanto di essa si potrebbe capire recuperando le domande (e le perplessità annesse) che tanti “comuni mortali” si sono poste alla vigilia delle elezioni presidenziali Usa.

La prima che mi viene in mente riguarda una “prassi” dell’elettorato statunitense che non ha nulla a che vedere con eventuali delusioni e/o fallimenti dell’amministrazione uscente (Obama ha avviato una riforma sanitaria invocata dall’85% delle popolazione e ricondotto la disoccupazione dai livelli “reaganiani” dello scoppio della crisi all’attuale 5%): quella di votare, con percentuali di solito schiaccianti, per il candidato del partito che è stato all’opposizione allo scadere del secondo mandato consecutivo dello stesso presidente. Che le “caratteristiche” di Trump avrebbero fortemente scardinato questa “logica dell’alternanza” insita nel DNA degli elettori Usa nessuno ne dubitava, e di fatto la Clinton ha preso più voti e la differenza l’hanno fatta i grandi elettori, ma perchè dare per scontato addirittura uno “strappo storico” in tal senso?

La seconda riguarda la grande abilità di Hillary Clinton di trascinare in guerra qualsiasi ammninistrazione con la quale ha collaborato in tutti questi anni.
Il pacifista Bill Clinton, noto anche come Billary proprio per la grande influenza subita dalla moglie Hillary in fatto di politica estera, dopo essersi distinto dal predecessore Bush per il ritiro delle truppe statunitensi dalla Somalia, nel 1995 si è occupato del conflitto etnico nell’ex Jugoslavia coinvolgendo la NATO in uno delle guerre più atroci in Europa dai tempi del secondo conflitto mondiale ed ordinando i raid aerei contro i serbi di Bosnia per costringerli a sedere al tavolo delle trattative e dispiegare poi le sue forze di pace nei Balcani.
Tre anni dopo, l’ex governatore dell’Arkansas, sempre con Hillary tessitrice dei rapporti con i clan della guerra storicamente “amici” dei repubblicani, dopo gli attentati di Al Qaeda contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania, ha fatto bombardare numerosi obiettivi ritenuti strategici in Sudan e Afghanistan e l’anno successivo è tornato ad occuparsi della zona balcanica, dove l’esercito a stelle e strisce è stato protagonista assoluto della guerra in Kosovo e della conseguente caduta di Slobodan Milosevico, criminale di guerra stranamente “miracolato” da NATO e USA durante i conflitti etnici del 1998.
Il premio Nobel (2009) per la pace Barack Obama, dopo il ritiro delle truppe inviate in Iraq da G. W. Bush a seguito dei fatti dell’11 settembre e l’invasione aerea della Libia per destabilizzare il dittatore Muammar Gheddafi mentre Hillary era senatore dello Stato di New York, con la “dea della guerra” in veste di segretario di Stato ha avviato una serie di attacchi (fallimentari) contro le postazioni dell’Isis in Iraq e Siria addirittura senza il consenso di quest’ultimo, paese sovrano, ha sostenuto “moralmente” l’Ucraina durante gli attacchi della Russia in Crimea e autorizzato la fornitura di armi letali a Kiev proprio grazie ad una serie di dicumenti stilati dall’ufficio presieduto dalla signora Clinton, prima, e da John Kerry, poi. E sembra che anche l’inasprimento dei rapporti con Cina e Russia siano dovuti al lavoro della Clinton.
Ora, con tutte le cialtronate che il finto anti-establishment Trump potrà combinare, è proprio il timore di nuovi conflitti bellici a dover preoccupare i cittadini statunitensi e tutti noi?

La terza questione è strettamente correlata alle altre due.
Hillary Clinton è stata alla Casa Bianca con Bill per due mandati e con Barack Obama per altri quattro anni. E nel mentre ha ricoperto la carica di senatore dello Stato di New York, stato roccaforte per i democratici, dopo aver perso le primarie presidenziali contro Obama. Dodici anni ai vertici del mondo e sedici sempre al centro delle attenzioni statunitensi: troppi, davvero, per le abitudini a quell’alternanza di cui sopra che abbiamo sempre apprezzato di un Paese che invece spesso non ci piace perchè “esporta democrazia” a suon di guerre, dollari a mafie e gruppi terroristici e minacce di sanzioni e embarghi. Ma nonostante ciò, grazie all’anomalia Trump, è riuscita a canalizzare su di sè la maggioranza dei voti dei cittadini americani, compresi quelli dei delusissimi elettori della prima ora di Obama e dei laburisti di Sanders, per i quali non deve essere stato proprio un gran piacere esprimersi a favore della rediviva signora delle guerre strategiche e dei raid aerei.
Ma davvero è così anomalo che abbia vinto Trump?

mercoledì 9 novembre 2016

Referendum costituzionale 2016: un giudizio sul governo, e basta (2° parte)


Se le ragioni del si hanno un impianto ideologico che sa di sconfitta del parlamentarismo nella sua accezione più alta, con quelle invocate a supporto del no sprofondiamo nel comico, spesso addirittura nel trash più estremo, fermi restando quei temibilissimi vuoti legislativi che anche un pinco pallo come me ha da temere senza aver bisogno di citare le analisi di eccelsi (o presunti tali) costituzionalisti o le cagate sparate a zero da qualunquisti e replicanti vari.
D’altronde, convogliare in un’unica direzione il voto di tante persone che hanno un’idea  (o che non l’hanno mai avuta) di Stato e società molto diversa tra di loro non è semplice e la via più agile è quella del terrorismo mediatico e delle bufale, ma davvero siamo messi male in fatto di conoscenza di quella stessa carta che si sostiene si voglia difendere dall’attacco dell’attuale maggioranza. Il governo, sento dire in giro, non avrebbe diritto a toccare la Costituzione perchè non eletto dal popolo. Cosa dire? I governi si formano come prevede la Costituzione, dunque attraverso la fiducia di Camera e Senato (perchè si eleggono i parlamentari nel nostro paese) sulla squadra presentata da colui che ha ricevuto l’incarico dal Presidente della Repubblica dopo che questi ha ascoltato i capigruppo, i segretari di partito e i rappresentanti più autorevoli dei due rami del Parlamento. Ed è ovvio che se a presentarsi alle urne, con un sistema maggioritario, siano due schieramenti è più probabile che a ricevere l’incarico sia il leader di quello che ha ricevuto più voti. Ma ciò non vuol dire che si sia votato il presidente del Consiglio dei ministri o addirittura il governo, ma è una pura questione algebrica. A catena, di conseguenza, sorvolerei anche sull’altra obiezione correlata a questa e molto gettonata, vale a dire che i presidenti della Repubblica abbiano messo in piedi dei colpi di Stato nel dare l’incarico a presidenti non eletti (circa 52 dal 1948 ad oggi). Amo il suffragio universale, diretto (tutti possono votare) e indiretto (tutti possono essere votati), ma il metodo sperimentato su Alex in Arancia Meccanicoa, con la carta costituzionale a scorrere ininterrottamente sullo schermo, lo applicherei a tantissimi elettori in questo bellissimo Paese, se non altro perché decidono anche per me. Molto suggestivo anche quel rischio di una dittatura di fatto che scaturirebbe da un lieve spostamento di poteri dal Parlamento all’esecutivo. Innanzitutto, se provassi a contare le leggi di inziativa parlamentare rilevatesi di una certa importanza per il paese portate a compimento negli ultimi 30 anni non riuscirei ad impiegare tutte le dita di una mano. Lo schema è, ed è stato, infatti sempre lo stesso: i parlamentari rinunciano a legiferare per non perdere consensi raccolti a colpi di slogan e frasi che tutti vogliono sentirsi dire così da assicurarsi il posto per l’intera legislatura, mentre tocca ai governi proporre decreti, assumersi le responsabilità agli occhi dei cittadini e assoggettarsi alla gogna mediatica scaturente dal gioco a nascondino di 6/700 nullafacenti eletti come rappresentanti del popolo. Un adeguamento della Costituzione a ciò che davvero avviene in Italia dagli anni ‘70 del secolo scorso non sarebbe di certo un male, ma, come ho già accennato in precedenza, a me piacerebbe che sia l’elettore (non l’ultras o il suddito volontario di qualche partito o movimento) a premiare o bocciare l’operato del parlamentare eletto piuttosto che ci si rassegni a cambiare l’assetto tra i poteri istituzionali per rimediare alla pigrizia dell’italiano, che non si informa su nulla e ripete come un pappagallo quelle quattro fesserie che legge o sente superficialmente mentre è al cesso o al bar.
Sono consapevole che la mia è un’utopia, ma che senso ha parlare di regime offendendo i popoli anglosassoni (e non solo) che vivono in un sistema che è più simile all’assetto proposto da questa riforma e far credere che le vere democrazie siano quelle (Italia e Turchia) dove ci sono le costituzioni più belle e fighe del pianeta? Non se ne vogliano gli eredi dei padri costituenti, ma se potessi, piuttosto che incorniciare la Costituzione, a casa esporrei come minimo un Caravaggio!

Tralasciando i tanti “l’ha detto Tizio” e “l’ha detto anche Caio”, passerei ora a quella parte della riforma che mi colpisce in positivo più di tutte le altre: la “regionalizzazione” del Senato (ad oggi una farsa pazzesca) e la composizione di questo con soggetti già eletti in ambito locale.
C’è chi sostiene che sia un modo per estendere l’immunità parlamentare a soggetti “nominati” e non eletti, inquisiti facenti parte dei consigli regionali e comunali, e chi che per fare il senatore occorra ancora oggi riscaldare lo scanno tutti i giorni a Palazzo Madama e percepire uno specifico stipendio.
La prima osservazione è stata lanciata da Travaglio, abile critico sempre attento ad ingraziarsi il partito d’opposizione più imponente del momento (la sinistra ai tempi di Berlusconi e i pentastellati oggi che c’è Renzi). Ammetto di aver sempre subito un certo fascino dalle analisi del direttore del Fatto, fin dai tempi del Giornale di Montanelli e dei suoi editoriali su Cuore, ma mi pare alquanto difficile sostenere che quando si rinuncia ad un introito fisso quale i contributi statali alla stampa (ormai in estinzione) si possa ritenere un giornalista, ed un giornale, che ha fortemente bisogno di una base fissa e cospicua di lettori come indipendente, se non altro perchè ad ogni inizio mese si parte sempre da zero in fatto di reddito certo. Se poi aggiungiamo che una riforma costituzionale deve avere necessariamente una gettata di lungo periodo e che la “sparata” è legittimata invece da alcune indagini in corso oggi, mi sa tanto che siamo proprio fuori strada e che si stia facendo solo propaganda in tale direzione. A maggior ragione se si pensa che una legge elettorale per eleggere i senatori è possibile solo dopo la riforma, dunque anche il ricorso al termine “nominati” è a dir poco bizzarro.
Per il secondo aspetto sono davvero allibito. Oggi, un impiegato insignificante come me, ad esempio, con un pc e due schermi produce in un giorno quanto chi faceva il suo stesso lavoro dieci anni fa non riusciva nemmeno in quindici (forse venti) giorni lavorativi. Non capisco perchè un consigliere regionale o comunale eletto come senatore dai cittadini non possa seguire tre/quattro riunioni settimanali improduttive via streaming dal suo ufficio ed espimersi via web con voto certificato (e comunicare via pec) e recarsi a Roma soltanto quando ci sia da votare la fiducia al Governo o una legge di vitale importanza per le finanze statali (o esprimersi su una riforma costituzionale). Non mi è chiaro perchè a rappresentare gli enti locali debba ancora oggi essere qualcuno che non conosce il territorio (ci siamo dimenticati che i senatori campani, lucani, calabresi, pugliesi e del basso Lazio non sapevano nemmeno i nomi dei paesi colpiti dal sisma dell’Irpinia e le figure di merda fatte dai loro colleghi di tutt’Italia durante le alluvioni e i terremoti che hanno devastato il territorio nazionale in tutti questi anni?) e che debba addirittura percepire una remunerazione specifica per qualche ora di presenza in Senato mentre cazzeggia con il proprio tablet, dorme, scrive messaggini ai suoi amici allundendo alle belle forme di qualche collega o alla bruttezza di qualcun altra e abbandonarsi alle più disparate tecniche masturbatorie che si conoscano.
Ho serie difficoltà a comprendere perchè non si possa pagare soltanto la trasferta a chi già lavora sul territorio e sia stato eletto democraticamente dai suoi concittadini per rappresentarli a Roma. Dov’è la necessità che venga allestito il Senato per dibattiti che si possono fare tranquillamente in rete? Perchè devo preoccuparmi del fatto che il barbiere, il calzolaio, gli uscieri e gli autisti di Palazzo Madama rischino che il proprio inquadramento diventi da full-time a part-time? E’ da prima che nascessi che circola quest’idea di Senato regionale con dei veri rappresentanti locali ed ora se ne parla in toni addirittura grotteschi.
Questo passaggio della riforma non mi dispiace affatto e credo che se un giorno qualcuno lo proporrà (magari isolatamente) non esiterei a recarmi alle urne per esercitare serenamente il mio voto.

Potrei continuare citando altre stroncatura meno gettonate, ma diciamocela tutta, senza prenderci in giro: a questo referendum costituzionale si voterà pro e contro il governo. C’è tanto di ideologico sia da un lato che dall’altro. C’è molta propaganda e troppo terrorismo mediatico che se ci fosse un quorum la risposta di un popolo che ami sul serio la democrazia, sia abituato ad informarsi e detesti i giochini delle antinomie tra leggi nazionali e regionali che fanno diventare importanti burocrati e politicotti vari anche per ottenere un certificato che all'estero si piò ottenere con una richiesta via emai, non potrebbe essere che l’astensione.
E’ legittimo esprimersi di pancia e pro o contro un esecutivo, non mi si fraintenda. Ma basta con tutta questa campagna allarmistica e questo finto ergersi a salvatori della patria o a difensori della costituzione. Siamo in piena subcultura da stadio e la si respira a pieni polmoni. Ne beneficerà il no, dicono i sondaggi, soprattutto nelle aree più assistite della nazione, ma grande è la confusione e tanta è la voglia di giocare sulla carta costituzionale. Complimenti!

domenica 6 novembre 2016

Referendum costituzionale 2016: un giudizio sul governo, e basta



Manca meno di un mese alle consultazioni referendarie del 4 dicembre 2016 e il clima è sempre più rovente.
Certo, l’aver spostato l’evento più avanti rispetto al periodo inizialmente prospettato (inizi di ottobre) ha sgonfiato tanto le ragioni del si, quanto quelle del no, ma l’argomento è serio, nonostante noi comuni mortali credessimo che in questa fase storica a tutto si sarebbe arrivati a pensare fuorchè ad una modfica della carta fondante della nostra Repubblica. Perchè, ricordiamolo, nel mondo intanto è accaduto ciò che chiunque (o quasi) sapeva essere possibile ma si auspicava che mai capitasse: tutti i trucchi contabili, finanziari e sistemici messi in piedi dagli inizi degli anni ‘70 dello scorso secolo ad oggi per salvare un sistema, quello capitalistico, già fallito negli stessi anni in cui crollava anche quello del cosiddetto socialismo reale non hanno più alcuna valenza, con la conseguente recessione globale dalla cui morsa non si esce più e l’esplosione di una bolla dietro l’altra.
Invece ci troviamo a parlare di Costituzione anziché di coraggio di reagire per via legislativa ordinaria alle trasformazioni che stanno investendo un sistema economico e sociale che reputare bollito fa davvero tanto ottimismo, di riforme interne ai singoli Stati e non su scala mondiale, di partiti e schieramenti piuttosto che di umanesimo e socialdemocrazia, di miliardari da strapazzo e presunti nuovi leader guerrafondai e mai di soluzioni ampiamente condivise come una classe dirigente responsabile dovrebbe proporre in un momento come questo.
Ma visto che questo è lo scenario attuale, possiamo “divertirci” a smantellare le ragioni più gettonate del si e del no al nostro quesito referendario di dicembre. Perchè in fondo sembra tutto una forzatura, ambo i lati, e così finiamo per distrarci tra bufale, slogan e occasioni mancate.
Per quanto riguarda le “perplessità” sulla forma, e la sintesi, del quesito, preferisco invece rinviare ad uno straordinario Crozza durante un recente episodio di Crozza nel Paese delle meraviglie. Il referendum, dicono quelli del si, attraverso il superamento del cd. bicameralismo perfetto (o paritario), il sistema che prevede identici poteri per Camera e Senato, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione del Cnel e l’instaurazione di un rapporto di fiducia tra la sola Camera e il governo e uno “diretto” tra Senato e Regioni produrrebbe la riduzione dei tempi per legiferare, dei costi della politica e dei contrasti (e contenziosi) con le Regioni e gli enti territoriali in generale.
In astratto, senza riuscire a leggere del tutto il testo della riforma, di un linguaggio molto distante da quello della nostra Costituzione, e notando nei rilievi dei gruppi parlamentari che hanno preso in visione il decreto del governo le “sole” obiezioni dell’inopportunità di proporlo in questo scenario di recessione eterna e della presunta illeggitimità del Parlamento perchè eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale (sanata a tempore dallo stesso organismo?), sembrerebbe uno dei possibili traguardi di quel percorso di cambiamento dell’assetto dello Stato iniziato con la tardiva istituzione delle Regioni nel lontano 1970 e poi silenziosamente arenatosi. Il superamento del bicameralismo perfetto, dicono quelli del si, sistema ideale in un periodo, quello dell’immediato dopoguerra, in cui, non abituati alla democrazia, il voto dei parlamentari senior in Senato avrebbe potuto rimediare ad uno eventualmente più “avventato” dei colleghi più giovani alla Camera dei deputati, sarebbe un grosso passo in avanti per un Paese dove l’homo democraticus è ormai abituato ad esprimersi anche via web e avverrebbe in nome del perfezionamento di quel rapporto tra Stato centrale e enti territoriali che raramente ha funzionato e che avvicenerebbe la popolazione agli organi centrali attraverso persone che già conoscono il territorio in quanto coinvolte nell’amministrazione dello stesso. Mica poco, verrebbe da pensare, se aggiungiamo che il legame (solo di tipo numerico) tra Stato e Regioni espresso da tutte le leggi elettorali che abbiamo provato fino ad oggi hanno portato alla camera “regionale” spesso persone che nemmeno conoscevano i loro bacini ellettorali (come hanno reso palese soprattutto quando le loro terre sono state colpite da eventi molto drammatici quali terremoti e alluvioni).
La proposta di riforma, inoltre, introduce l’istituto del referendum propositivo, cosa che non sarebbe dispiaciuto a tanti “referendari” nostrani, e innalza il quorum referendario a 150mila firme dalle attuali 50mila per i disegni di legge di iniziativa popolare. Una cifra relativamente ancora contenuta, se si pensa che siamo oltre 60 milioni, non nascono più bambini e siamo arrivti a quasi 51 milioni di aventi diritto al voto. Una lettura così lineare della riforma Boschi (così l’hanno ribattezzata) non lascerebbe quindi alternative al voto contrario. Ma pur schivando le analisi pro e contro dei costituzionalisti più autorevoli, che spesso ci arrivano mediate da coloro che se ne appropriano per dare sostegno alla propria posizione, e il dubbio che questa accelerazione sia dovuta alla necessità di rendere più snelle talune procedure legislative e dunque più appetibile il sistema Italia per gli investitori, dunque ad esigenze (anche fondate) di breve periodo, da homo democraticus vero diversi dubbi sul fatto che ci si possa permettere sul serio tale tipo di lettura della riforma ce li ho.
Non solo per il fatto, già evidenziato, che razionalmente da un governo di emergenza nazionale (perchè questa mi sembra sia la natura del’attuale esecutivo) tutto mi sarei aspettato tranne che pur di dare un segnale di novità e attrarre investimenti stranieri in Italia si sarebbe arrivati a toccare la carta costituzionale, ma perché la confusione è davvero tanta e le persone che hanno messo mano sul testo non mi sembrano avere proprio quella credibilità, quello spessore e quella saggezza necessarie per rendere fluido un pacchetto di riforme così ampio.
Se poi penso che per ridurre i costi della politica si debba mettere mano alla Carta perchè mai e poi mai senatori e deputati voteranno compatti una riduzione dei loro compensi e privilegi, il disgusto è ben servito e l’inutilità e l’estraneità dalla realtà quotidiana dei cittadini di tanti di essi mi sembra più che palese.
Dunque, ben vengano la riduzione dei membri del Senato, la trasformazione di quest’ultimo in una vera camera a base regionale e un’armonizzazione dei rapporti tra enti locali e istituzioni centrali, ma finchè ciò non avverrà con un serio atto di responsabilità da parte dei nostri deputati e senatori, attraverso una riforma costituzionale di iniziativa parlamentare e non governativa, non credo possano prendersi sul serio tanti buoni propositi di chi ha proposto questo tipo di riforma.
Cosa ben diversa per la soppressione del Cnel: in un Paese normale ciò significherebbe l’accantonamento di qualsiasi obbligo in capo al legislatore di adottare politiche economiche mirate all’occupazione e al lavoro (fermo restando l’articolo 1 e la prima parte della Costituzione, che non sono oggetto di revisione), ma nell’ultima riforma è stato addirittura soppresso il termine “programmazione economica” (introducendo quello di “vincolo di bilancio”), dunque a che serve più mantenere in vita tale organo?

Va bene, quindi, ritoccare il Senato e sopprimere il Cnel attraverso una legge costituzionale, ma davvero è tollerabile che in una democrazia parlamentare si modifichino circa 42 articoli della Carta attraverso una riforma di iniziativa governativa giocando sul fatto che dobbiamo dare l’idea di un Paese che vuole rinnovarsi all’estero? Possono digerirsi i tanti vuoti legislativi che necessariamente ci saranno dopo un eventuale vittoria del si? Ed è giusto che si usi una riforma costituzionale per beghe interne ai partiti? Perchè è palese che c’è un gruppo di giovani che vuole imporre con essa un taglio dei costi ed un ammodernamento del sistema ad una platea di vecchi (fancazzisti) delle loro stesse compagini che vivono di rendita di posizione e di parlamentarismo a tutto spiano e che non voteranno mai una legge ordinaria che preveda la soppressione dei loro privilegi e di tanti contrasti normativi tra stato centrale e enti locali che accrescono l'importanza di burocrati di bassa lega e faccendieri vari.
Le ragioni del si, anche nella loro versione più nobile, mi sembrano quindi sinonimo di forzatura ideologica e di morte del parlamentarismo nella sua interpretazione più alta, una via forzosa per ottenere ciò che i professionisti della poltrona non vogliono: ridurre gli sprechi e limitare il loro potere nell’applicazione delle leggi nazionali in ambito locale, quel feudalesimo in chiave post-moderna al quale dovrebbe rimediare l’elettore con il proprio voto e il Parlamento attraverso le leggi ordinarie e, eccezionalmente, costituzionali. (continua)

lunedì 31 ottobre 2016

Ferrara: quando la storia segna l'atmosfera di una città


Arriviamo a Ferrara di venerdì sera assieme a tantissimi pendolari e studenti.
Il regionale veloce preso a Padova ci lascia all’altezza di un’uscita secondaria della stazione proprio in prossimità di viale Cavour, la strada ideale per incamminarci verso il centro. Alloggiamo a pochi metri dal Palazzo dei Diamanti e da Corso Ercole d’Este, cronologicamente il primo viale d’Europa e del mondo. Il “nostro” host ci delizia di informazioni storiche e dritte molto gradite sulla stupenda città patrimonio culturale del Rinascimento, quando da ducato indipendente durante la signoria degli Este ospitò, tra le tante personalità illustri dell’epoca, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Giovanni Pico della Mirandola, Matteo Maria Boiardo, Piero della Francesca, Leon Battista Alberti, Rogier van der Weyden, Andrea Mantegna, Tiziano, Giovanni Bellini, Guarino Veronese e il natìo Girolamo Savonarola.
Appena presa confidenza con il monolocale affittato per la notte e rimessi in sesto dopo il tour padovano e l’oretta passata in treno ci avviamo verso il centro per cenare.
Il Castello d’Este è un passaggio obbligato per recarci in uno dei posti gentilmente segnalatici dal nostro simpaticissimo “Virgilio” di Ferrara e colpisce alla sua sinistra, complice il gioco di luci che lo illuminano, il Teatro Comunale, da marzo 2014 intitolato al maestro Claudio Abbado, che ne fu direttore per lungo tempo.


Dopo una cena a base di cappellacci alla zucca con ragu, salama al sugo con purè, Sangiovese e tenerina, rientriamo fiancheggiando nuovamente il Castello d’Este e ripercorrendo il Corso Ercole d’Este fino all’incrocio con Corso Biagio Rossetti, dove costeggiamo di nuovo le pareti del Palazzo dei Diamanti, del quale Rossetti fu l’architetto, prima di rintanarci.
Il mattino successivo, dopo una foto al Palazzo dei Diamanti, partiamo alla volta dell’altro versante del Corso Ercole d’Este, quello che conduce alle mura storiche della città passando davanti al Parco Massari, all’Università, all’ingresso della Certosa e ad una bella sequenza di abitazioni tutte basse e dal caratteristico cotto ferrarese fino a viale Orlando Furioso.





Giunti in fondo al Corso, decidiamo di tornare indietro e avviarci al centro deviando dalla Certosa (e cimitero monumentale) verso Corso Porta di Mare, la continuazione di Corso Rossetti, attraverso via Borso, parallela al Corso Ercole d’Este. La strada sbuca di fronte a Piazza Ariostea, interessante punto (dove abbiamo fatto colazione) dal quale ci avviamo verso il centro percorrendo via Palestro e Corso della Giovecca.


Passeggiando per Corso della Giovecca arriviamo proprio di fronte al Castello d’Este, all’angolo del Teatro Comunale, e da qui parte il giro nel cuore di Ferrara.



Dopo il Castello, seguendo Corso Martiri della Libertà, incontriamo Piazza Savonarola, il Palazzo del Municipio, la Cattedrale ("impacchettata" per lavori) e Piazza Trento e Trieste, passaggi imperdibili per chiunque visiti Ferrara.





Da qui ci avviamo verso Via delle Volte attraverso via San Romano, via Ragno e Piazza Carbone, individuando, grazie ai graditissimi suggerimenti di un residente, dove prenotare per il pranzo, così da allungarci nel mentre a Palazzo Schifanoia.





Suggestiva la visita alla sede museale del Palazzo, per quanto limitata a due sole sale, una vera “perla” rinascimentale, e ottimo il pranzo in quella parte della città, intorno alle Volte, meno turistica e più residenziale, ma anch’essa ricca di fascino e tanta storia.


Piacevole poi ripercorrere le strade del centro in pieno pomeriggio dedicando maggiore attenzione ai negozi che vi si affacciano, prima di incamminarci definitivamene verso la stazione ferroviaria per tornarcene a casa.
Una città dal centro incantevole e affabilmente segnata dal suo glorioso passato.


domenica 30 ottobre 2016

Padova in un giorno: una piacevole “follia"


Padova è una città bellissima. Ricca di importanti ed affascinanti tesori e siti di grande interesse artistico. Pensare di godersela in poche ore è da “folli”. La soddisfazione di averlo fatto, zaino in spalla, è dunque tanta. Per quanto ciò abbia implicato delle significative rinunce (maturate “strada facendo”).

La corsa è partita dalla Chiesa degli Emeritani, o meglio dal percorso che dalla stazione ferroviaria porta ad essa (sempre più bello man mano che ci avvicina al centro cittadino).


Subito dopo si è raggiunto il giardino dell’Arena, dove sorgono la Cappella degli Scrovegni e i Musei Civici. Il ciclo degli affreschi di Giotto che decorano l’interno della prima (le sculture sono di Giovanni Pisano) rappresenta una delle opere più importanti d’Italia.






I Musei Civici sono il Museo Archeologico, dove sono esposti reperti dall’epoca paleoveneta alla romanità, e il Museo d’Arte, che espone dipinti e sculture dal ‘300 al ‘700 (anche di Giotto, Giorgione, Tiziano, Veronese, Romandino, Tintoretto, Bellini, Canova e Tiepolo), oltre che esposizioni temporanee (ne stavano allestendo e presentando una mentre visitavamo le sale del museo).
Nei chiostri dell’edificio che ospita queste ricchissime ed affascinanti esposizioni frammenti di Padova dall’età romana al ‘700.






Il biglietto che consente queste due importanti soste (anche in termini di tempo quella ai Musei Civici) comprende anche l’accesso a Palazzo Zuckermann, bellissimo edificio in stile ottocentesco posto di fronte ai giardini dell’antica Arena e, dunque, al complesso dei Musei e sede, al primo piano, di Collezioni di Arti Applicate e Decorative e, al secondo, del Museo Bottacin. Consigliatissimo da chiunque abbia incontrato, è la sosta (rinviata nel pomeriggio) che purtroppo è saltata. Fortunatamente non è saltata la visita fugace (troppo, ma il tempo stringeva) al Museo Archeologico rinviata sempre nel pomeriggio, quando, di ritorno dal centro storico e diretti alla stazione, saremmo dovuti passare di nuovo in prossimità del complesso espositivo cittadino.




Procedendo verso il centro, anche per mangiare qualcosa, ci siamo imbattutti nel Caffè Pedrocchi, dal 1800 punto di incontro di intellettuali, accademici e studenti di Padova, e poco dopo, percorrendo via Cavour, nel Palazzo Bò, l’antica università cittadina, nel Palazzo Municipale e, dietro di esso, nel Palazzo della Ragione.





Dopo una capatina alla Piazza del Duomo e la pausa pranzo, ci siamo avviati alla Basilica di Sant’Antonio (la Basilica del Santo), prima, e al Prato della Valle, poi. DI grande impatto visivo e stilistico gli edifici circostanti ques'ultimo.








Un caffè e un dolcino in pieno centro e ritorno alla stazione con deviazione, come detto, al Museo Archeologico.
Poi in viaggio per Ferrara a lungo in piedi stivati sul regionale veloce.
La città merita molta più attenzione, ma la "corsa" è stata davvero piacevole.