domenica 6 novembre 2016

Referendum costituzionale 2016: un giudizio sul governo, e basta



Manca meno di un mese alle consultazioni referendarie del 4 dicembre 2016 e il clima è sempre più rovente.
Certo, l’aver spostato l’evento più avanti rispetto al periodo inizialmente prospettato (inizi di ottobre) ha sgonfiato tanto le ragioni del si, quanto quelle del no, ma l’argomento è serio, nonostante noi comuni mortali credessimo che in questa fase storica a tutto si sarebbe arrivati a pensare fuorchè ad una modfica della carta fondante della nostra Repubblica. Perchè, ricordiamolo, nel mondo intanto è accaduto ciò che chiunque (o quasi) sapeva essere possibile ma si auspicava che mai capitasse: tutti i trucchi contabili, finanziari e sistemici messi in piedi dagli inizi degli anni ‘70 dello scorso secolo ad oggi per salvare un sistema, quello capitalistico, già fallito negli stessi anni in cui crollava anche quello del cosiddetto socialismo reale non hanno più alcuna valenza, con la conseguente recessione globale dalla cui morsa non si esce più e l’esplosione di una bolla dietro l’altra.
Invece ci troviamo a parlare di Costituzione anziché di coraggio di reagire per via legislativa ordinaria alle trasformazioni che stanno investendo un sistema economico e sociale che reputare bollito fa davvero tanto ottimismo, di riforme interne ai singoli Stati e non su scala mondiale, di partiti e schieramenti piuttosto che di umanesimo e socialdemocrazia, di miliardari da strapazzo e presunti nuovi leader guerrafondai e mai di soluzioni ampiamente condivise come una classe dirigente responsabile dovrebbe proporre in un momento come questo.
Ma visto che questo è lo scenario attuale, possiamo “divertirci” a smantellare le ragioni più gettonate del si e del no al nostro quesito referendario di dicembre. Perchè in fondo sembra tutto una forzatura, ambo i lati, e così finiamo per distrarci tra bufale, slogan e occasioni mancate.
Per quanto riguarda le “perplessità” sulla forma, e la sintesi, del quesito, preferisco invece rinviare ad uno straordinario Crozza durante un recente episodio di Crozza nel Paese delle meraviglie. Il referendum, dicono quelli del si, attraverso il superamento del cd. bicameralismo perfetto (o paritario), il sistema che prevede identici poteri per Camera e Senato, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione del Cnel e l’instaurazione di un rapporto di fiducia tra la sola Camera e il governo e uno “diretto” tra Senato e Regioni produrrebbe la riduzione dei tempi per legiferare, dei costi della politica e dei contrasti (e contenziosi) con le Regioni e gli enti territoriali in generale.
In astratto, senza riuscire a leggere del tutto il testo della riforma, di un linguaggio molto distante da quello della nostra Costituzione, e notando nei rilievi dei gruppi parlamentari che hanno preso in visione il decreto del governo le “sole” obiezioni dell’inopportunità di proporlo in questo scenario di recessione eterna e della presunta illeggitimità del Parlamento perchè eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale (sanata a tempore dallo stesso organismo?), sembrerebbe uno dei possibili traguardi di quel percorso di cambiamento dell’assetto dello Stato iniziato con la tardiva istituzione delle Regioni nel lontano 1970 e poi silenziosamente arenatosi. Il superamento del bicameralismo perfetto, dicono quelli del si, sistema ideale in un periodo, quello dell’immediato dopoguerra, in cui, non abituati alla democrazia, il voto dei parlamentari senior in Senato avrebbe potuto rimediare ad uno eventualmente più “avventato” dei colleghi più giovani alla Camera dei deputati, sarebbe un grosso passo in avanti per un Paese dove l’homo democraticus è ormai abituato ad esprimersi anche via web e avverrebbe in nome del perfezionamento di quel rapporto tra Stato centrale e enti territoriali che raramente ha funzionato e che avvicenerebbe la popolazione agli organi centrali attraverso persone che già conoscono il territorio in quanto coinvolte nell’amministrazione dello stesso. Mica poco, verrebbe da pensare, se aggiungiamo che il legame (solo di tipo numerico) tra Stato e Regioni espresso da tutte le leggi elettorali che abbiamo provato fino ad oggi hanno portato alla camera “regionale” spesso persone che nemmeno conoscevano i loro bacini ellettorali (come hanno reso palese soprattutto quando le loro terre sono state colpite da eventi molto drammatici quali terremoti e alluvioni).
La proposta di riforma, inoltre, introduce l’istituto del referendum propositivo, cosa che non sarebbe dispiaciuto a tanti “referendari” nostrani, e innalza il quorum referendario a 150mila firme dalle attuali 50mila per i disegni di legge di iniziativa popolare. Una cifra relativamente ancora contenuta, se si pensa che siamo oltre 60 milioni, non nascono più bambini e siamo arrivti a quasi 51 milioni di aventi diritto al voto. Una lettura così lineare della riforma Boschi (così l’hanno ribattezzata) non lascerebbe quindi alternative al voto contrario. Ma pur schivando le analisi pro e contro dei costituzionalisti più autorevoli, che spesso ci arrivano mediate da coloro che se ne appropriano per dare sostegno alla propria posizione, e il dubbio che questa accelerazione sia dovuta alla necessità di rendere più snelle talune procedure legislative e dunque più appetibile il sistema Italia per gli investitori, dunque ad esigenze (anche fondate) di breve periodo, da homo democraticus vero diversi dubbi sul fatto che ci si possa permettere sul serio tale tipo di lettura della riforma ce li ho.
Non solo per il fatto, già evidenziato, che razionalmente da un governo di emergenza nazionale (perchè questa mi sembra sia la natura del’attuale esecutivo) tutto mi sarei aspettato tranne che pur di dare un segnale di novità e attrarre investimenti stranieri in Italia si sarebbe arrivati a toccare la carta costituzionale, ma perché la confusione è davvero tanta e le persone che hanno messo mano sul testo non mi sembrano avere proprio quella credibilità, quello spessore e quella saggezza necessarie per rendere fluido un pacchetto di riforme così ampio.
Se poi penso che per ridurre i costi della politica si debba mettere mano alla Carta perchè mai e poi mai senatori e deputati voteranno compatti una riduzione dei loro compensi e privilegi, il disgusto è ben servito e l’inutilità e l’estraneità dalla realtà quotidiana dei cittadini di tanti di essi mi sembra più che palese.
Dunque, ben vengano la riduzione dei membri del Senato, la trasformazione di quest’ultimo in una vera camera a base regionale e un’armonizzazione dei rapporti tra enti locali e istituzioni centrali, ma finchè ciò non avverrà con un serio atto di responsabilità da parte dei nostri deputati e senatori, attraverso una riforma costituzionale di iniziativa parlamentare e non governativa, non credo possano prendersi sul serio tanti buoni propositi di chi ha proposto questo tipo di riforma.
Cosa ben diversa per la soppressione del Cnel: in un Paese normale ciò significherebbe l’accantonamento di qualsiasi obbligo in capo al legislatore di adottare politiche economiche mirate all’occupazione e al lavoro (fermo restando l’articolo 1 e la prima parte della Costituzione, che non sono oggetto di revisione), ma nell’ultima riforma è stato addirittura soppresso il termine “programmazione economica” (introducendo quello di “vincolo di bilancio”), dunque a che serve più mantenere in vita tale organo?

Va bene, quindi, ritoccare il Senato e sopprimere il Cnel attraverso una legge costituzionale, ma davvero è tollerabile che in una democrazia parlamentare si modifichino circa 42 articoli della Carta attraverso una riforma di iniziativa governativa giocando sul fatto che dobbiamo dare l’idea di un Paese che vuole rinnovarsi all’estero? Possono digerirsi i tanti vuoti legislativi che necessariamente ci saranno dopo un eventuale vittoria del si? Ed è giusto che si usi una riforma costituzionale per beghe interne ai partiti? Perchè è palese che c’è un gruppo di giovani che vuole imporre con essa un taglio dei costi ed un ammodernamento del sistema ad una platea di vecchi (fancazzisti) delle loro stesse compagini che vivono di rendita di posizione e di parlamentarismo a tutto spiano e che non voteranno mai una legge ordinaria che preveda la soppressione dei loro privilegi e di tanti contrasti normativi tra stato centrale e enti locali che accrescono l'importanza di burocrati di bassa lega e faccendieri vari.
Le ragioni del si, anche nella loro versione più nobile, mi sembrano quindi sinonimo di forzatura ideologica e di morte del parlamentarismo nella sua interpretazione più alta, una via forzosa per ottenere ciò che i professionisti della poltrona non vogliono: ridurre gli sprechi e limitare il loro potere nell’applicazione delle leggi nazionali in ambito locale, quel feudalesimo in chiave post-moderna al quale dovrebbe rimediare l’elettore con il proprio voto e il Parlamento attraverso le leggi ordinarie e, eccezionalmente, costituzionali. (continua)

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