domenica 31 gennaio 2016

Mercato dei cambi: un po’ di storia



La centralità del Forex nell’economia contemporanea è la conseguenza dell’abbandono del regime di cambi fissi con il dollaro vigente su scala mondiale fino agli inizi degli anni ’70.
Nel 1971 il presidente Nixon dichiara che gli Usa non possono più garantire la conversione in oro dei dollari in mano agli altri Stati, sancendo così la revoca degli accordi di Bretton Woods, primo vero esempio di un sistema di regole concordato su base mondiale per il controllo delle politiche monetarie internazionali.
Nelle nota località del  New Hampshire, la prima colonia britannica nordamericana a staccarsi dalla corona inglese nel gennaio 1776, contribuendo a fondare sei mesi dopo, con altri 12 Stati, gli Stati Uniti d’America, nel mese di luglio 1944, su iniziativa degli Usa e nella piena consapevolezza del caos monetario che tra i due conflitti mondiali aveva generato una guerra commerciale senza precedenti, si fissarono infatti i principi per un governo del sistema monetario tra Paesi indipendenti.

Dopo 22 giorni di estenuanti ed aspre riunioni gli oltre 700 delegati dei 44 Paesi alleati rappresentati a Bretton Woods convennero:

- la creazione del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS).
Compito principale del Fondo era quello di vigilare sulla stabilità del sistema monetario in modo da garantire le basi per la ricostruzione del commercio internazionale libero e multilaterale. Il peso di ogni stato membro nel Fondo era fissato in proporzione alla quota di capitale di esso sottoscritto;
- la possibilità per gli stati in situazioni di disavanzo di accedere ai prestiti del FMI attraverso i diritti di prelievo;
- la convertibilità in dollari Usa di tutte le valute (sistema “dollaro-centrico”);
- il vincolo per le banche centrali di ogni singolo Paese di mantenere un cambio stabile con il dollaro (il cui valore, a sua volta, era agganciato alle quotazioni del’oro), con l’obbligo (non per la Federal Reserve) di riallinearlo attraverso il ricorso ad operazioni di mercato aperto in caso di scostamenti (al rialzo o al ribasso) del tasso di un punto percentuale rispetto agli accordi;
- che la svalutazione fosse votata unicamente dal FMI e solo al verificarsi di problemi strutturali. Al Fondo toccava inoltre vigilare sull’applicazione di tali politiche monetarie da parte del singolo Paese in difficoltà;
- la cosiddetta “clausola di scarsità”, secondo la quale se una valuta era scarsa, gli altri Stati potevano unilateralmente decidere di ridurre le importazioni da quel Paese per far ripartire le proprie.

Gli accordi non consentivano tuttavia la corretta individuazione del quantitativo di dollari in circolazione, permettendo così agli Usa di esportare la loro inflazione nel resto del mondo e ridurre, di conseguenza, il potere d’acquisto all’interno dei Paesi partner, ma il sistema monetario creato riuscirà comunque a calmierare per oltre un quarto di secolo i conflitti economici tra gli Stati alleati.
(continua...)

da valute e forex: il mercato dei cambi

lunedì 25 gennaio 2016

Il rischio commodity


È il rischio correlato alla fluttuazione dei prezzi delle materie prime utilizzate da un'azienda per svolgere la sua attività e può essere di breve, di medio o di lungo periodo.
Nel primo caso di definisce “rischio transattivo” ed è riferito a un arco temporale tra 1 e 3 mesi (di solito il tempo che intercorre tra il momento in cui sorge l’impegno a incassare o pagare e il momento in cui l’incasso o il pagamento viene effettuato oppure il lasso temporale tra l’ordine sette e la vera e propria consegna) e consiste nel rischio di pagare o ricevere un importo maggiore o minore rispetto al prezzo di mercato a seguito di uno specifico ordine commerciale.
Nel caso di medio periodo (3-18 mesi) si parla di “rischio economico”, espressione con la quale si intende il rischio di subire un aumento dei costi e/o un calo delle vendite a causa di movimenti contrari del prezzo delle materie prime.
In ultimo, si parla di “rischio competitivo” per intendere il rischio di lungo periodo (oltre i 18 mesi) derivante da una variazione significativa e duratura del prezzo delle materie prime.
In tal caso lo scostamento potrebbe recare all’azienda una perdita di competitività in termini assoluti, favorendo i beni succedanei, o generare un aumento dei costi non trasferibili al mercato finale.

I soggetti esposti al rischio commodity si riconducono a tre categorie:
- produttori, vale a dire agricoltori, allevatori, estrattori di metalli e materie prime, etc, per i quali una diminuzione del prezzo della commodity comporta una diminuzione nei ricavi, e in generale un disincentivo a svolgere la loro attività, mentre un aumento dei prezzi potrebbe invece far aumentare la redditività aziendale, anche se potrebbe incentivare un aumento della concorrenza e comunque una riduzione dei margini di guadagno;
- acquirenti, cioè gli utilizzatori di materie prime per la gestione della loro attività commerciale e produttiva,  esposti al rischio transattivo in quanto il rischio commodity potrebbe verificarsi nel periodo che trascorre tra l'ordine e la consegna della merce. Una diminuzione dei prezzi potrebbe infatti implicare un aumento della redditività aziendale, mentre un loro aumento potrebbe comportare un calo della redditività se l’azienda non riuscisse a trasferire completamente i maggiori costi;
- esportatori, esposti al rischio politico poiché nel periodo che intercorre tra il momento dell’acquisto e la consegna della merce potrebbero subentrare modifiche legislative o regolamentari con conseguente innalzamento o riduzione dei prezzi della commodity di riferimento.

lunedì 18 gennaio 2016

ETS: come funziona il mercato europeo delle emissioni (parte 2)


Le quote di emissione sono assegnate in generale a titolo oneroso dai Paesi membri dell’UE agli operatori attraverso aste pubbliche europee.
Agli impianti manifatturieri maggiormente esposti al rischio di delocalizzazione per i costi del carbonio sono tuttavia assegnate anche quote a titolo gratuito, secondo coefficienti definiti per prodotto e quantificati sulla base dei risultati raggiunti dal 10% degli impianti più efficienti per ogni settore industriale.
Gli impianti possono comprare o vendere le quote sia tramite accordi privati sia rivolgendosi al mercato secondario delle emissioni.
La contabilizzazione delle quote e la registrazione del passaggio di proprietà delle stesse avviene presso il Registro unico dell’Unione Europea: è sulla base di quanto risultante in esso che gli operatori ogni anno compensano le proprie emissioni restituendo le quote agli Stati membri.
Anche se in misura limitata e solo fino al 2020, gli impianti possono utilizzare anche crediti di emissione non europei derivanti da progetti realizzati nell’ambito dei meccanismi introdotti su base internazionale dal Protocollo di Kyoto.
Gli ospedali e gli impianti con emissioni inferiori a 25mila tonnellate di anidride carbonica equivalente e, se di combustione, con potenza termica nominale inferiore a 35 MW, escluse le emissioni da biomassa, possono essere esclusi dall’UE ETS.
L’Autorità nazionale per la gestione della normativa in materia (Direttiva ETS) in Italia e il monitoraggio delle politiche internazionali in fatto di cambiamenti climatici è il Comitato ETS. Si tratta di un organo interministeriale presieduto dal Ministero dell’Ambiente, mentre la vice presidenza spetta al Ministero dello Sviluppo Economico.

Per ora il sistema europeo non ha prodotto i risultati sperati.
La crisi economica ne ha limitato fortemente l’impatto e l’Europa si è ritrovata isolata nelle sue regole.
Molte imprese hanno infatti delocalizzato la produzione proprio nei territori dove il mancato rispetto delle normative in materia energetica ed ambientale consente di produrre a prezzi più competitivi e lo stesso consumatore finale in tantissimi casi ha spostato nelle stesse aree l’accesso ai consumi.
L’allargamento delle regole dell’Unione alle zone extra Ue, passaggio necessario per la riduzione reale delle emissioni globali, così non c’è stato e il valore dei titoli legati ad esse è drasticamente crollato (dagli iniziali 30 € per tonnellata di CO2 oggi siamo intorno ai 7-8 €).
Al momento non sembra quindi un “affare” investire in ristrutturazioni dei mezzi di produzione e in generale perseguire politiche di efficientamento nell’emissione di CO2.
E se il parametro principale per la riduzione dei gas serra resta quello della convenienza economica, sembrerebbe fin troppo più logico comprare quote altrui e continuare ad inquinare. 

martedì 12 gennaio 2016

ETS: come funziona il mercato europeo delle emissioni


In attuazione del Protocollo di Kyoto (Conferenza Onu sui cambiamenti climatici del 1997), per ridurre le emissioni di gas a effetto serra nei principali settori industriali l’Unione Europea ha adottato il sistema europeo di scambio di quote di emissioni (ETS), di fatto il principale (se non l’unico) strumento per controllare l’inquinamento da anidride carbonica su base internazionale.
Introdotto dalla Direttiva 2003/87/CE, l’EU ETS (European Union Emissions Trading Scheme) è un sistema “cap&trade”: da un lato, fissa un tetto massimo (“cap”) al totale delle emissioni di CO2 per tutti i soggetti che ne fanno parte e, dall’altro, consente ad essi di acquistare e vendere sul mercato (“trade”) quote di emissione di CO2 all’interno di tale limite.

In questo schema, fissato il limite di gas serra (in tonnellate di anidride carbonica) che ogni impianto delle società soggette al Protocollo di Kyoto è autorizzato ad emettere nell’atmosfera, nel caso in cui un impianto emetta anidride carbonica in quantità inferiore a quella consentita, la società titolare di esso potrà vendere la propria quota di emissione di CO2 non utilizzata ad un’altra titolare di un impianto che non riesce a rispettare la soglia stabilita.
Così la società “virtuosa”, attraverso la cessione delle quote non utilizzate, riesce a monetizzare l’efficientamento energetico raggiunto e, in generale, gli interventi in azienda per ridurre l’inquinamento da CO2, mentre la seconda riesce ad evitare pesanti sanzioni pur violando i massimali consentiti acquistando dall’altra: un sistema di scambio che per l’UE dovrebbe favorire una decisa riduzione di emissioni nell’intera comunità europea (-20% nel 2020 rispetto al 1990).

lunedì 4 gennaio 2016

Ferrari: debutto a Piazza Affari più da rally che da Formula uno



Esordio della Ferrari a Piazza Affari da rally stamane.
Complice la giornata negativa delle principali piazze internazionali a seguito dei dati sul rallentamento del manifatturiero in Cina e la speculazione conseguente allo scorporo da Fca, il titolo del cavallino rampante, partito a quota 43,23 euro, in mattinata è stato sospeso dopo essere scivolato sotto i 42 euro, per essere poi riammesso a 42,79, riportarsi al di sopra del prezzo di apertura e arrivando a toccare i 44 euro per azione, il prezzo di chiusura di New York del 31 dicembre, valorizzando così una capitalizzazione pari a 8,17 miliardi.

Le azioni di Fiat Chrysler Automobiles, che mercoledì scorso quotavano 12,92 euro, subito dopo l’apertura valevano 8,73 euro, per poi toccare i massimi a 8,89 euro e ridiscendere a 8,48, per una capitalizzazione di circa 10,9 miliardi di euro contro i 16,6 miliardi di euro dell’ultima seduta dello scorso anno, quando, però, il gruppo guidato da Sergio Marchionne deteneva ancora l’80% del marchio di Maranello.

«Lusso, no automotive». «Il risultato di oggi della Ferrari in Borsa sarà determinato anche da gente che prende posizioni – il commento di Sergio Marchionne -. Dobbiamo aspettare che nelle prossime due settimane le interferenze spariscano. Aspettiamo che si assesti. Ci vorrà tempo».
«Ferrari non ha nulla a che vedere con l’automotive» ha poi spiegato Marchionne, che ha invece escluso l’ipotesi di quotazione per Maserati.