giovedì 30 giugno 2016

La composizione del debito pubblico italiano


Il debito pubblico è, in generale, pari al valore nominale di tutte le passività lorde consolidate delle amministrazioni pubbliche (amministrazioni centrali, enti locali ed istituti previdenziali pubblici).
Esso è costituito da monete, biglietti e depositi, prestiti e titoli diversi dalle azioni, con l’esclusione di strumenti finanziari derivati.
Le passività finanziarie italiane, nello specifico, sono costituite da titoli obbligazionari e monetari statali, da emissioni di enti locali e, in misura minore ma comunque significativa, da prestiti e mutui speciali di banche e altre società finanziarie, conti correnti, buoni fruttiferi e depositi postali presso il Tesoro (Banca d'Italia, supplementi al Bollettino Statistico, 15 dicembre 2015).

L’83% circa del debito pubblico italiano è rappresentato da titoli di Stato.
Gran parte della quota di debito è detenuta dagli investitori sotto forma di Buoni del Tesoro pluriennali, BTp (e BTp€i), quasi il 67% del totale dei titoli di Stato, per un controvalore nominale di 1.231.002 milioni di euro. Come tutti gli altri titoli di Stato, essi vengono collocati sul mercato tramite asta, con cadenza mensile. Sono, come abbiamo visto, strumenti quotati sul Mercato Telematico Obbligazionario: gli investitori istituzionali che hanno partecipato all’asta possono, di conseguenza, rivenderli sul mercato secondario, a prezzi anche differenti rispetto a quello di emissione.  
I titoli con vita maggiore sono, ovviamente, anche quelli con maggior rischio, traducibile dunque in un tasso più elevato.

I Buoni ordinari del Tesoro, BoT, hanno invece una diffusione più contenuta, circa il 6,75% del totale dei titoli emessi, misura strettamente legata alla loro funzione di finanziamento del debito a breve termine.
La loro remunerazione, ricordiamolo, viene definita dalla differenza tra il prezzo di acquisto del titolo e il valore nominale a scadenza, senza la presenza di cedole periodiche come invece avviene nel caso dei BTPp e con un tasso di interesse il quale può considerarsi anticipato poiché sottratto dal valore nominale a scadenza.  

I Certificati del Tesoro Zero-Coupon, o CTZ, rappresentano il 3,28% dei titoli emessi, sono anch’essi senza cedola, a tasso fisso, di durata pari o inferiore a 24 mesi, con prezzo determinato per differenza tra il valore nominale di rimborso e il prezzo di cessione, sempre al di sotto della pari. Si differenziano dai BoT principalmente, se non esclusivamente, per la durata maggiore.

I Certificati di Credito del Tesoro, CCT, rappresentano invece il 7,04% del totale dei titoli di Stato emessi, e, come abbiamo già visto, sono titoli con durata di sette anni, tasso di interesse variabile, cedole indicizzate al rendimento dei BOT semestrali o annuali emessi nel bimestre che precede il mese antecedente lo stacco della cedola, con l’aggiunta di uno spread variabile tra 0,3% e 1%.  

Se i titoli di Stato con durata maggiore rappresentano la fetta più cospicua del debito pubblico italiano, la parte restante è distribuita sotto diverse forme, dai finanziamenti erogati allo Stato da enti sovranazionali, come il Fondo Monetario Internazionale, ai depositi costituiti dai residenti e ai biglietti e alle monete emesse.  
Tale varietà di strumenti implica che anche i soggetti titolari del debito pubblico siano molteplici.  
A fine 2015 la situazione risultava la seguente:
- Banca d’Italia detiene 149.858,12 milioni di euro, di cui 145.449 milioni in titoli di Stato;
- altre istituzioni finanziarie monetarie residenti, vale a dire l’insieme delle banche residenti e dei fondi comuni monetari, 662.922 milioni di euro, di cui 398.867 in titoli di Stato;
- altre istituzioni finanziarie residenti, cioè soggetti diversi da banche e fondi comuni monetari che svolgono attività di raccolta ed impiego, 445.876 milioni di euro, di cui 438.638 in titoli di Stato;
- altri soggetti residenti, vale a dire coloro che non appartengono ad alcuno dei precedenti settori, 167.955,96 milioni di euro, di cui 146.582 in titoli di Stato; - non residenti, tra cui gli istituti centrali di credito appartenenti all’Eurosistema, la Banca Centrale Europea tramite il programma EFSF (European Financial Stability Facility), il fondo di salvataggio ESM e tutti gli altri presenti nella bilancia dei pagamenti, 765.389,15 milioni di euro, di cui 719.939 in titoli di Stato.

venerdì 24 giugno 2016

Origini del debito pubblico italiano


Il debito pubblico italiano attuale prende forma già durante il periodo rinascimentale, quando diventa una prassi l’indebitamento delle corti nei confronti di banchieri e istituzioni finanziarie per lo sviluppo dell’apparato pubblico.
Con l’unità d’Italia del 1861 questa modalità di finanziamento degli investimenti centrali viene confermata appieno, rinunciando definitivamente alla raccolta di liquidità attraverso la leva fiscale (tasse) e radicando sempre più il mondo bancario all’interno dell’amministrazione statale, garantendo così, proprio sulla base del rapporto debiti/crediti creatosi, quella stabilità politica della quale ogni creditore ha bisogno per la tutela dei propri investimenti e ogni esecutivo per governare e portare avanti le proprie politiche.   Un intreccio di interessi reciproci che, se da un lato ha favorito lunghi periodi di crescita e pace sociale, alla distanza ha tuttavia allentato qualsiasi forma di “pudore” nel ricorso sconsiderato alle finanze pubbliche per finalità spesso solo forzatamente legate ad obiettivi quali welfare e crescita economica e reso il Paese sempre meno autonomo dal mondo bancario e finanziario e sempre più vulnerabile alla speculazione sul debito sovrano.

domenica 19 giugno 2016

Il debito pubblico italiano


Argomenti quali mercati finanziari, quotazioni, titoli pubblici di breve (mercato monetario) e medio lungo periodo (obbligazionario) spostano irrimediabilmente l’attenzione sul debito pubblico del Paese emittente, problema di notevole importanza per le casse dello Stato e il futuro dello stesso e dei suoi cittadini.
Un debito sovrano elevato è infatti una tassa sulla crescita, un elemento che, in un contesto economico e sociale straziato da una spirale negativa, condiziona tutti i settori dell’economia e aumenta la probabilità di default dello Stato stesso.
Il debito pubblico italiano ha raggiunto livelli ormai insostenibili da anni, sia in valore assoluto sia espresso in rapporto al PIL, e negli ultimi trenta, complice anche il ricorso continuo a scelte politiche prevalentemente di breve periodo con finalità sfacciatamente elettorali, la sua crescita ha subito addirittura un’ulteriore accelerata.
A fine 2015 il debito italiano è risultato di circa 2.170 miliardi di euro (dati Banca d’Italia), in aumento di quasi 39 miliardi sullo stesso periodo dell’anno precedente, con un picco di 2.212 miliardi registrato a novembre ed una riduzione nell’ultimo mese dell’anno dovuta principalmente al ridimensionamento della liquidità presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze da 74,4 a 35,7 miliardi. Gli interessi pagati sul debito sono stati di circa 80 miliardi (3,8% in media, il dato più basso di sempre), mentre l’avanzo primario è risultato di circa 50, una cifra evidentemente insufficiente anche a coprire i soli interessi.  
Scenario, quest’ultimo, già da solo in grado di evidenziare quanto possa essere praticamente impossibile in futuro generare ricchezza aggiuntiva per abbattere il debito pubblico (che non è altro che l’anticipo di redditi futuri) attraverso la tassazione.
In realtà molti tentativi sono stati messi in campo per frenare, o quantomeno rallentare, la crescita dell’esposizione debitoria italiana, ma tutto è stato vanificato da scelte amministrative particolarmente “bizzarre” se non propriamente clientelari, in passato, e dalla crisi economica che ormai da quasi dieci anni sta deprimendo l’economia nazionale e mondiale tutta, finendo per distogliere, in tanti casi, ancora più l’attenzione delle istituzioni nazionali dall’oggetto sociale che dovrebbe orientare l’attività economia e finanziaria dello Stato, vale a dire il perseguimento del benessere dei propri cittadini.

mercoledì 15 giugno 2016

Social network: Linkedin è di Microsoft per 26 miliardi




Linkedin è di Microsoft per 26,2 miliardi di dollari.
L’operazione, una delle più costose fino ad oggi, si perfezionerà nei prossimi mesi e conferma Microsoft, che nel 2011 ha acquistato Skype per 8,5 miliardi di dollari e l’anno dopo il social network privato Yammer per 1,2, ancora pienamente coinvolta, nonostante il flop Nokia, nelle politiche di crescita per aggregazioni che stanno portando avanti anche altri colossi digitali come Google (che nel 2006 ha assorbito YouTube), Facebook (con l’acquisizione di Instagram nel 2012 e WhatsApp nel 2014) e Apple.  
LinkedIn, ormai una comunità di circa 433 milioni di utenti, di cui 105 attivi ogni mese e abituati ad utilizzare i suo servizi anche su tablet e smartphone, permette a ciascun membro di aggiornare il proprio curriculum e di rimanere (o mettersi) in contatto con colleghi e amici, consentendo un flusso di notizie circa gli interessi principali tra quanti sono in collegamento tra loro.  
È utilizzato in prima battuta per la ricerca di personale da gran parte delle aziende e nelle versioni premium l’utente ha accesso anche a informazioni sull’utilizzo del proprio curriculum da parte di altri, recruiter e head hunter compresi.  
Per Microsoft (1,2 miliardi i pacchetti Office in giro per il pianeta), l’integrazione delle due comunità di utenti a seguito dell’acquisizione del social network di professionisti (15 sedi sparse per il mondo e circa 9.200 dipendenti), creerà nuove occasioni di ricavi aggiuntivi con gli abbonamenti e la pubblicità (cosa che a Linkedin non riesce da un po’), oltre che con lo sviluppo di nuovi servizi a pagamento per le aziende, e favorirà fin da subito un ulteriore miglioramento delle sue applicazioni più importanti come Skype, Outlook e Office attraverso la precisa identificazione di ogni utente di LinkedIn.
Battuta Salesforce, contendente della creatura di Bill Gates nell’operazione.

venerdì 10 giugno 2016

Championship Manager 01/02: la risalita (e la rinascita) dei viola



I mesi successivi, la rincorsa fino al quinto posto in campionato, la vittoria della Coppa Italia e la sconfitta in finale di Coppa Uefa contro il Manchester United (eliminato ad agosto dalla Champions) confermarono che eravamo diventati davvero una gran squadra.  
La Fiorentina del fallimento e della retrocessione si era trasformata in una macchina da guerra inarrestabile, anche se Veron, Scholes, Giggs, Cole e i fratelli Neville nella finale Uefa di metà maggio riusciranno a fermarne la corsa dopo tre mesi a dir poco perfetti e una doppio confronto (in cm 01/02 la finale Uefa a quei tempi si svolgeva ancora secondo la formula andata e ritorno) molto equilibrato.
 
Febbraio era iniziato con il trasferimento di Allegretti e un colpaccio in trasferta a Mestre, a danni del Venezia di Prandelli e del tridente (fortissimo in cm 01/02) con Magallanes (nel mirino della Juve) alle spalle di Maniero (infallibile come nella realtà) e Di Napoli.
Pochi giorni dopo, la semifinale di ritorno di Coppa Italia contro il Brescia (0-0) si era rivelata una pura formalità, confermando lo stato di grazia di Morfeo (il sostituto di Chiesa nelle partite di coppa nazionale) e il maggior equilibrio in campo garantito dalla presenza di un fluidificante sulla sinistra del centrocampo (Pieri) anziché un centrocampista offensivo e da un terzino marcatore a destra della difesa (Repka, nello specifico) anziché un fluidificante.

In campionato la squadra giocava ormai alla perfezione, interpretando meglio di quanto mi aspettassi ciò che disponevo durante la preparazione tattica e gli allenamenti.
Al di là di qualche eccezione dettata dalle condizioni fisiche di qualcuno dei titolari o da esigenze di turn-over, sui due lati del campo schieravo ormai un terzino marcatore ed uno fluidificante in difesa ed un trequartista ed un esterno difensivo a centrocampo. In altre parole, quando schieravo Ezequiel Gonzalez sul versante sinistro di centrocampo dall’altro lato c’era spesso Torricelli (o Di Livio), se a destra convocavo Rossi all’altro lato compariva Pieri.  
Con questo assetto più guardingo e, soprattutto, quel “furore agonistico” che per oltre metà stagione stentava ad emergere la mia Fiorentina recuperava posizioni su posizioni in classifica e un protagonista (mancato, fino a quel momento) dopo l’altro.  
Spettacolari, in tal senso, le varie rimonte dopo essere andati in svantaggio con le compagini più accreditate per la vittoria finale del campionato grazie alle sgroppate da centrocampo di Enrico Chiesa, che finalmente sembrava quello che eravamo abituati a vedere in TV in quegli anni, agli assist di Nuno Gomes, sempre più uomo squadra e meno goleador, ai guizzi esplosivi di Marco Rossi e al recupero di Sandro Cois.
Fondamentale la costanza di Di Livio, eccellente nel ruolo di centrocampista centrale in sostituzione di Cois e in quello, occasionale, di terzino o centrocampista destro, Torricelli, Gonzalez, Vanoli (anche in chiave più propriamente difensiva) e, soprattutto, Adani.
Quest’ultimo, il nostro “mitico”, che tra l’altro presentava una media percentuale di passaggi riusciti tra le più alte della squadra e del campionato (con quella dei contrasti a partita vinti la migliore in assoluto tra i difensori della serie A), era ormai nel giro della nazionale ed era finito al centro delle attenzioni delle principali protagoniste della massima serie (Inter su tutte).

Mi accorsi che eravamo arrivati in alto, e quindi lontani dalla zona retrocessione, grazie a Gonzalez. Verso la fine di marzo la sua scheda (i calciatori in cm 01/02 sono visibili mediante schede valori) non evidenziava lamentele o sintomi di particolari malumori e finalmente, dopo una serie interminabile di partite, m’ero deciso a dare un’occhiata alla classifica e al rendimento della mia squadra.  
In meno di 27 giorni avevamo giocato quattro partite di campionato, dove eravamo imbattuti dalla seconda metà di gennaio, la finale d’andata di Coppa Italia, 1-1 a Roma contro i giallorossi, e le semifinali di Coppa Uefa con il Liverpool (1-1 all’andata e 1-0 nel ritorno al Franchi).
Nel primo incontro con il Liverpool eravamo andati in vantaggio agli inizi del secondo tempo con Chiesa ed avevamo subito la rimonta solo nei minuti finali di recupero ad opera del granitico Heskey. Le aspettative erano ben peggiori e il pareggio all’Anfield Road contro Gerrard, Carragher, Owen, Dudek, Rjse, Berger, Hamann, Babbel&Co. aveva conscarato un momento d’oro, coronato poi dall’1-0 del ritorno a Firenze con il gol su punizione nel finale ad opera di Morfeo, subentrato a Chiesa negli ultimi dieci minuti di gioco.
A maggio ci sarebbe stata la finale con il Manchester United di Scholes, Keane, Beckam, Giggs, Veron e la macchina da gol Ruud Van Nistelrooy. E nello stesso mese si sarebbe giocata anche la finale di ritorno di Coppa Italia con la Roma.
In entrambi gli incontri contro il Liverpool avevano giocato Rossi a destra e Gonzalez a sinistra: in Europa, anche per il fitto calendario di impegni della squadra e il necessario turn-over a cui ero dovuto ricorrere, mi ero ritrovato a schierare di nuovo i due centrocampisti offensivi laterali. Con grande soddisfazione, inoltre, grazie soprattutto alle due ottime prestazioni dell’ala destra/fluidificante poi bandiera del Genoa, decisivo in entrambi gli incontri.

Ad aprile e maggio la corsa ai piani alti della classfica del campionato si materializzava. Senza impegni di coppa e piacevolmente ancora in corsa in tutte le competizioni a cui avevamo preso parte, avevo messo in campo sempre quella che mi sembrava la formazione migliore, comunque quella più “rodata” e affiatata, raccogliendo una serie di vittorie consecutive che mai mi sarei immaginato potesse verificarsi. La serie di imbattibilità cominciata a gennaio si interrompeva all’ultima di campionato, contro il Piacenza, quando eravamo addirittura in corsa, con 55 punti, per l’ultimo posto per la Champions League. Eravamo arrivati quinti ed eravamo in Europa.
La doppia finale di Coppa Uefa, come anticipato, aveva consegnato il trofeo ai Red Devils, ma con la Roma in casa i viola conquistavano la seconda Coppa Italia consecutiva.
Avevo con me squadra, presidenza e tifosi e tanti progetti da portare avanti.

mercoledì 1 giugno 2016

Championship Manager 01/02: viola ancora in panne, ma la squadra c'è

messaggio dirigenza

Ricevevo un altro secco rifiuto dal Real per Cambiasso e dall’Ajax per Ikedia. Il secondo avrei potuto provare ad ingaggiarlo per averlo poi a giugno e raggirare così la mediazione dei “lancieri” di Amsterdam: non mi dispiaceva negoziare direttamente con i calciatori in scadenza contratto e/o i loro procuratori, anche se ciò implicava qualche aggiustamento verso l’alto dell’ingaggio.
Cambiasso lo avrei voluto provare fin dal girone di ritorno del campionato ma il Real non sembrava intenzionato a trattare, a prescindere dall’offerta fatta. E nella trattativa si stava inserendo anche il River.
Nel mentre il Perugia cedeva Blasi alla Juve per 7,9 milioni e la partita di ritorno di coppa Italia contro la Roma a Firenze (andata 1-1) la sera del 7 gennaio ci aveva visto rischiare l’eliminazione fino al recupero, quando Chiesa aveva annullato il vantaggio degli ospiti (tiro dal limite di un giovanissimo Aquilani) rinviando l’esito della sfida ai supplementari, prima, (durante i quali Torricelli aveva giocato da mediano al posto di un acciaccato, ma concreto, Rossitto e avevo buttato in campo Morfeo al posto di Di Livio per tentare un disperato assalto negli ultimi 10 minuti di gioco), e, infine, ai rigori. Avevamo superato i quarti di finale del trofeo nazionale grazie agli errori dal dischetto di Emerson (la cui presenza era in forse secondo quanto comunicatomi dall’osservatore incaricato di visionare sempre i ‘prossimi avversari’) e Delvecchio. Per la mia Fiorentina aveva sbagliato solo Nuno Gomes, ancora in panne come goleador ma protagonista di una buona partita e assist man del gol di Chiesa.

La sera stessa del ritorno dei quarti di coppa Italia negoziavo il trasferimento di Mirko Pieri dall’Udinese previo pagamento della penale di rescissione da 3,7 milioni di euro e un triennale per il calciatore di 600mila euro a stagione più un premio da € 40mila per ogni assist fatto.
Mi “rassegnavo” (perché l’avrei voluto in squadra fin dal girone di ritorno del campionato) a trattare con Cambiasso un eventuale trasferimento a giugno offrendogli 800mila euro a stagione per almeno 4 anni di contratto a fronte di una richiesta di un triennale da 1 milione e 400mila euro annui. Ritornando a Ikedia, al momento la presenza di alternative nello stesso ruolo mi convinceva, viceversa, ad evitare eventuali gare al rialzo e, dunque, a negoziare con il calciatore per aggregarsi alla squadra in estate. Confidavo, inoltre, in un exploit di Marco Rossi nel ruolo di esterno destro di centrocampo: era molto più che una promessa per il futuro e non solo per questioni anagrafiche.

Anche le quattro partite di campionato tra il 9 (recupero della partita in calendario il 6 e posticipata per via dell’impegno di coppa Italia) e il 27 gennaio non avevano dimostrato una squadra pronta a voltare pagina per concentrarsi sul gioco e, finalmente, reagire.
Pareggio in casa con il Torino (3-3), sconfitta (amara) a Perugia il 13 (0-1), vittoria a Verona contro il Chievo il 20 (3-1) e altro pareggio (0-0) in casa contro il Milan il 27.
Cinque punti in 4 partite non erano quello che ci auspicavamo e la classifica non s’era mossa granché. Il presidente non aveva esitato a ricordarmelo.
Tre settimane senza coppe avevano permesso alle big di mettere in campo i migliori, e ciò avvalorava il noioso 0-0 contro il Milan, di fatto annullato per l’intera partita, e la pausa natalizia aveva consentito a tutti i team di recuperare gran parte dei titolari: passi falsi non ce n’erano stati, da parte di nessuno.
In entrambe le prime due gare avevo sostituito Di Livio a circa mezz’ora dalla fine con Rossitto.
Nella terza ero partito con quest’ultimo titolare ma ad un quarto d’ora dall’intervallo ero stato costretto (per una botta) a sostituirlo con “Soldatino”, protagonista assoluto con un gol e due assist. Chiesa e Nuno Gomes i beneficiari dello stato di grazia del compagno, con il portoghese sempre in difficoltà davanti al portiere ma capacissimo di tenere bloccati i difensori avversari presso la loro area per gran parte della gara e autore a sua volta dell’assit per Di Livio.
Pur senza brillare, Amoroso aveva retto bene, sostituito soltanto durante il secondo tempo nella partita contro il Perugia (con Torricelli). Speravo comunque in un recupero miracoloso di Cois, che consideravo il vero tassello di un centrocampo che vedeva a destra Rossi, in evidente crescita, a sinistra Gonzalez, sempre incisivo negli inserimenti e Di Livio mediano tuttofare.
A Verona Pieri, aggregatosi alla squadra dopo aver firmato il contratto che gli avevo proposto, era subentrato a Vanoli, uscito per un lieve infortunio, durante la ripresa, risultando uno dei migliori in campo. Al Franchi, contro i rossoneri, l’avevo schierato fin dall’inizio come terzino sinistro ma durante il primo tempo era risultato addirittura il peggiore in campo. Agli inizi del secondo l’avevo dovuto spostare in avanti al posto di Gonzalez, uscito per trauma cranico, facendo entrare Vanoli (che non avevo coluto rischiare) per coprire il lato sinistro della difesa: in veste di centrocampista sinistro il neoacquisto era riuscito a dare una netta svolta alla pessima prestazione di cui era stato protagonista fino a quel momento. Qualche dubbio sul fatto che Pieri potesse davvero giocare al posto di Vanoli in difesa mi balenava per la testa, ma le caratteristiche tecniche e fisiche in suo possesso non mi dispiacevano affatto. E avevo senza dubbio rinforzato la rosa su un lato, quello sinistro, dal quale creevamo maggiori difficoltà agli avversari.

Tre giorni dopo il pareggio casalingo con il Milan era la volta della semifinale di coppa Italia contro il Brescia. Le “Rondinelle”, guidate in attacco da Baggio e Toni, avevano eliminato il Parma grazie ad una vittoria casalinga per 1 a 0 (1-1 l’andata) e venivano da un’annata straordinaria, cominciata in piena estate con l’Intertoto, conclusosi con l’eliminazione in finale, e proseguita con un girone di andata del campionato che aveva visto Toni miglior realizzatore della serie A e i gemelli Filippini in odore di convocazione in nazionale.
Al Franchi la sfida era finita 2-0. Una vittoria agevole e caratterizzata da una netta supremazia sull’avversario. Pieri aveva giocato al posto di Gonzalez dal primo minuto, per poi uscire al 80’ per fare spazio a Morfeo (autore di un assist). Al centro avevano retto bene sia Amoroso che Di Livio. Rossi era stato un incubo per i due Filippini che si erano alternati sulla fascia sinistra del Brescia fino al 72’, quando usciva tra gli applausi del pubblico per Torricelli.
Impeccabili Tarozzi, Vanoli, Adani e Pierini (su Toni). Meno Chiesa e Nuno Gomes.

Nel frattempo avevo chiuso, dopo intense contrattazioni, sia con Cambiasso, che si sarebbe aggregato alla squadra ai primi di luglio per 1 milione e 100mila euro a stagione per 4 anni (come giocatore ‘utile nel turn-over della squadra’) e cospicui premi per assist e gol, e Ikedia, in arrivo a metà giugno per 1 milione annuo per 4 stagioni e 50mila euro per  ogni gol e assist fatto. Avevo anche fatto un’offerta di 750mila euro al Como per Allegretti, secondo l’osservatore incaricato di seguirlo una promessa per il futuro ‘che potrebbe essere utile alla squadra fin da subito’. (continua)