sabato 14 dicembre 2019

Liquidità e Ue: cosa sono gli eurobond e perchè non sono mai partiti


Si discute di Eurobond dal lontano 2011, quando la crisi dei debiti sovrani scoppiata sull’onda del crack Lehman Brothers stava assumendo dimensioni serie e connotati drammatici per l’economia della vecchia Europa e la tenuta dei Paesi dai conti più barcollanti, e con il prolungarsi del dibattito comunitario sul Mes sono ritornati in auge come e, forse, più di allora: ma cosa sono e perchè dividono così tanto i vari membri dell’Unione?

Gli Eurobond altro non sono che titoli di debito, obbligazioni del debito pubblico dei Paesi facenti parte dell’eurozona, da emettere attraverso un’apposita agenzia dell’Unione europea, la cui solvibilità sarebbe garantita congiuntamente da tutti gli Stati membri mediante l’intervento della Banca europea degli investimenti (Bei) o di altro istituto di credito, purchè non sia la Bce, e i cui oneri verrebbero condivisi tra tutti i soggetti (mutualizzazione).

In altri termini, gli E-bond rappresenterebbero un potenziale meccanismo solidale di distribuzione del debito su base europea la cui solvibilità sarebbe garantita dall’insieme dei membri dell’Ue anche nel caso in cui un singolo Stato non riuscisse a ripagare il suo debito.

La liquidità raccolta mediante la loro emissione verrebbe destinata agli Stati membri più in difficoltà, ma per la loro stessa natura essi rimarrebbero strumenti comuni, senza essere cioè legati a nessun singolo Paese.

Con tale meccanismo si ridurrebbero le probabilità di una crisi del debito sovrano e del correlato effetto contagio degli altri Paesi membri, ma il principio mutualistico alla base di esso non mitigherebbe il rischio che gli Stati con i conti pubblici più disastrati continuino a far correre irresponsabilmente il prorio debito ribaltando rischi e costi su quelli più virtuosi.

Non è un caso, dunque, che queste obbligazioni comuni siano al centro di analisi e dibattiti internazionali, e foriere di grossi contrasti nell’Unione, da quasi dieci anni ormai.

Le critiche e le perplessità.
In linea di massima, gli Eurobond sembrano la panacea di ogni male, l’arma letale per affrontare la speculazione internazionale e sventare il rischio default dei Paesi più propensi all’indebitamento, complice anche l’enfasi su di essi alimentata dai loro più strenui sostenitori all’epoca della crisi sul debito sovrano, su tutti Jean-Claude Juncker e Giulio Tremonti, allora, rispettivamente, presidente dell’Eurogruppo e ministro dell’economia e delle finanze del governo italiano, e la tenue conoscenza dei titoli obbligazionari e, soprattutto, di alcune peculiarità dell’Unione europea.

Le perplessità generali vertono, tuttavia, su un dato di fatto incontrovertibile: la (quasi) totale assenza di armonizzazione in materia di politica fiscale e finanziaria tra i membri dell’Ue.

I conti pubblici dei vari Stati sono infatti esageratamente diversi tra loro, sia per quanto riguarda le leggi in materia di fisco, lavoro, previdenza e welfare, sia per le modalità di finanziamento di quest’ultimo.
Adottare strumenti di debito comuni che mutualizzino oneri e rischi in uno scenario così variegato e difforme è davvero molto più complesso di quanto si possa credere.

E' comprensibile come la semplificazione di taluni concetti nell’immaginario collettivo possano far pensare al contrario, ma è doveroso ricordare che ogni Stato europeo, fin dalle origini della nascita dell’Unione, ha conservato molte caratteristiche del proprio sistema per preservarsi taluni margini di intervento all’interno di esso che rendono difficilissimo l'adozione di soluzioni comuni efficaci.
Ad onor del vero, spesso è faticoso anche misurare il fabbisogno finanziario reale di ogni Paese o l'impatto di un intervento per capire se sia stato sul serio efficace.

Non meno trascurabile, poi, è il problema rappresentato dalle profonde differenze nell’andamento delle diverse economie nazionali, tradizionalmente misurato mediante il Pil.
Qui di critiche potrebbero sollevarsene tante e, al netto di un’interpretazione estrema del concetto di solidarietà, è arduo provare a biasimare quelle più frequenti.

Basti pensare che i Paesi più virtuosi nella gestione dei conti pubblici, come abbiamo detto in precedenza, dovrebbero farsi carico di un costo del debito aggiuntivo a favore di quelli più indebitati: è evidente, come accennato, che già in questa caratteristica alla base degli Eurobond risiede il rischio che i Paesi destinatari di aiuti, proprio in virtù di questa “protezione”, si possano sentire incentivati a mettere in piedi politiche fiscali e di bilancio ancora meno attente nel generare disavanzo rispetto a quelle che li hanno condotti al rischio collasso, finendo per far aumentare i costi a carico degli Stati più attenti alle finanze pubbliche.

Una gestione meno rigorosa dei conti pubblici incentivato dal ricorso a strumenti come gli Eurobond, inoltre, potrebbe spingere ad un aumento dei tassi di interesse sul debito e innescare una spirale inflazionistica che potrebbe mettere in serie difficoltà la salvaguardia del potere d’acquisto dei cittadini, i conti e gli investimenti di famiglie e imprese del vecchio continente e la tenuta delle economie più solide dell’Unione, da sempre attente a tale variabile nel programmare le loro finanze e i loro investimenti.

L’unica soluzione che consentirebbe di introdurre obbligazioni comunitarie come gli Eurobond sarebbe dunque il superamento di quel limite generale suesposto, vale a dire che si raggiunga un'uniformazione e un'integrazione delle legislazioni fiscali dei Paesi membri, ma ciò implicherebbe per tutti quella forte riduzione della sovranità nazionale che vede proprio nella materia fiscale la massima espressione e che nessuno vuole dal punto di vista politico.

Difficile, quindi, che si giunga, per ora, ad una soluzione in tale direzione.

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