lunedì 25 luglio 2016

Il debito pubblico italiano dal 1990 ad oggi: il peso del rischio paese


Agli inizi dell’ultimo decennio del secolo scorso la situazione delle finanze pubbliche italiane è seriamente compromessa.
La spesa pubblica viaggia a ritmi superiori a quelli di Germania (+1,4%) e Regno Unito (+4,3%), il disavanzo totale raggiunge l’11% e il rapporto debito/Pil è pari all’unità.
Proprio dal 1990, sulla base dei vincoli sul debito concordati in chiave europea, il Paese imbocca la via del risanamento. I governi Amato (1992) e Ciampi (1993) pongono come obiettivo primario del loro programma proprio  il riequilibrio finanziario delle casse dello Stato e grazie anche a quelle manovre, all’epoca prontamente ribattezzate “maxistangate”, il Tesoro registra consistenti avanzi primari, soprattutto dal 1997 al 2000, il cui effetto viene però sterilizzato dall’elevata spesa per interessi.

Il continuo disavanzo commerciale, l’inflazione e il rischio Paese che negli anni 80 avevano toccato picchi assurdi costringono infatti l’Italia a concedere rendimenti nominali sui prestiti contratti all’estero più del doppio rispetto alla media Ue, maggiorati, inoltre, del rischio svalutazione, sia per scelte di governo, sia per gli attacchi speculativi sulla lira, come nel 1993, conseguenti alla scarsa credibilità del sistema Italia in campo internazionale dovuta all’instabilità politica interna.
Un’autoespansione del debito frenatasi soltanto con l’avvento dell’euro ma ripartita con veemenza con lo scoppio della crisi dei subprime (2008), che ha reso fin troppo palese come la crisi del debito sovrano italiano sia talmente più cronica di quella delle altre principali economie mondiali da impedire al Paese, incapace di ragionare in termini diversi da disavanzi, interessi su interessi e svalutazioni a catena, di reagire alla recessione.

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