venerdì 13 marzo 2020

Fondo salva-Stati: chi sono i veri nemici del MES e quali le critiche principali


Argomento dibattuto da tanto e ritornato veementemente al centro della cronaca proprio in piena pandemia coronavirus, il MES e la sua riforma sembrano ormai occupare molto più spazio di quanto ci si sarebbe immaginato, soprattutto per la specificità della materie e la necessaria razionalizzazione dei fondi europei istituiti per allontanare lo spettro default e il rischio contagio nell’eurozona.

Le polemiche sul tema hanno assunto toni a tratti anche aspri e spesso fuorvianti, quasi a capovolgere gli originari assi pro e contro il fondo salva-Stati messo in campo in piena recessione mondiale nel 2012, durante la fase più cruenta della crisi dei debiti sovrani.

Chi l’ha voluta e votata senza battere ciglio oggi si erge infatti a baluardo dei detrattori della stessa e fiero oppositore dell’UE tutta, come sovente accade in questi anni dove, complice la difficoltà dei cittadini a storicizzare gli eventi e il sopravvento delle urla e della narrazione sulla realtà, chi ha adottato dei provvedimenti li demonizza quando non è più alla guida delle istitutzioni, mentre chi all’epoca era all’opposizione e magari ha sollevato anche qualche critica si ritrova a gestirne poi le conseguenze diventandone il più strenuo difensore.

Al di là di questo trend di fondo che inquina non poco la comprensione degli eventi e dei fenomeni, quali sono i Paesi avversi fin dalle origini al MES e le criticità principali sollevate dagli stessi?

Gli Stati membri dell’Unione che non accettano il Meccanismo Europeo di Stabilità come istituito fin dalle origine sono quelli del Nord Europa.
Sono quei Paesi il cui rapporto debito/Pil e il cui deficit sono molto contenuti e che non accettano di dover far fronte ai rischi elevati assunti dalle banche e dalle istituzioni di quelli che hanno dimostrato storicamente una gestione delle finanze più sbarazzina e spesso irresponsabile, a partire da quelli dell’Europa mediterranea, se non dopo un’immediata decurtazione del valore dei loro titoli del debito pubblico.

Per l’asse nord-europeo, in altre parole, le banche e le altre istituzioni finanziarie che hanno acquistato i titoli di Stato di un Paese in difficoltà finanziarie lo hanno fatto in quanto attratti dal potenziale maggior guadagno in termini di interessi offerto da questi rispetto ai titoli emessi dai Paesi con conti pubblici più solidi: lo hanno fatto, per l'asse nord-europeo, principalmente per lucrare.
Di conseguenza, il MES dovrebbe intervenire soltanto dopo una rapida ristrutturazione del debito del Paese a rischio default tagliando il valore dei suoi titoli (haircut) fin da subito, perchè chi li ha acquistati è giusto che paghi le conseguenze del rischio assunto.

Un ragionamento che, in generale, non fa una piega, sebbene spesso negli anni addietro gli istituti di credito hanno acquistato titoli di Stato anche per calmierare la speculazione sul Paese emittente e di concerto con le banche e le istituzioni centrali, ritrovandosene in portafoglio molti di più di quanti preventivati.
Di certi in termini legislativi o affini hanno ottenuto qualche contropartita, ma per finalità meramente speculative abbiamo visto aver ricorso a ben altro e non sempre in linea con i criteri prudenziali che avrebbero dovuto seguire (dopo averli adottati).

Un altro aspetto del MES che sembrerebbe favorire i Paesi meno virtuosi nella gestione delle finanze pubbliche è l’assenza di un tetto massimo, deliberato da un organismo esterno, al cosiddetto leverage tra il capitale sociale autorizzato e l’esposizione debitoria verso gli Stati membri.

Tale carenza non solo non incentiverebbe gli Stati meno attenti alle finanze pubbliche ad invertire il loro trend di fondo, ma non scongiurerebbe nemmeno il rischio che il fondo stesso, investito di compiti di pubblica utilità e dotato delle conseguenti immunità e garanzie di riservatezza, possa trasformarsi in un soggetto speculativo.

Altra critica importante alla formula originaria del MES riguarda infine l’assenza di garanzie reali a fronte degli impegni assunti dagli Stati beneficiari delle somme erogate sotto forma di aiuti.

A differenza di altri fondi di stabilità (come ad esempio il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi), non è infatti previsto un vero accantonamento contabile, vale a dire il conferimento in proprietà o ipoteca di beni demaniali, o meglio di una loro definizione preventiva, per fronteggiare la mancata adozione degli aggiustamenti di bilancio da parte dei Paesi beneficiari: garanzie con cui, invece, gli stati potrebbero, quando richiesto dal MES, reperire in futuro la quota di loro competenza in tempi rapidi.

Le cirtiche originarie al MES sembrerebbero poco opinabili.

Oggi tuttavia le perplessità sul ricorso a questo strumento si sono notevolmente ampliate, sia perchè la specificità dell'argomento e la scarsa conoscenza dello stesso lo rendono di facile impiego in un dibattito pubblico sempre più orientato alla mera strumentalizzazione delle questioni in termini puramente elettoralistici ed al conseguente appiattimento dei contenuti, vuoi perchè dovendo rappresentare l'unico (o comunque il principale) strumento europeo di salvataggio si presterebbe ad un utilizzo molto più ampio di quello inizialmente previsto al punto di richiedere la rivisitazione di alcune regole di funzionamento, sia in quanto nel quadro odierno, caratterizzato sì da tassi bassi ma anche da rendimenti di pari livello o poco più elevati dei primi, diventerebbe particolarmente penalizzante il ricorso ad esso per somme molto più grandi di quelle che si prospettavano agli albori, al punto di mettere in discussione il concetto stesso di solidarietà.

Interessante capire l'evolversi della situazione al netto delle urla e dei proclami.

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