sabato 28 luglio 2018

Debito pubblico: il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale


Il primo governo fascista si insediò nel 1922 e nello stesso anno il Ministero del Tesoro e quello delle Finanze vennero accorpati sotto un’unica struttura.

La situazione ereditata dall’esecutivo era decisamente drastica.
Il ministro Alberto De’ Stefani, titolare del nuovo dicastero dopo essere stato docente universitario a Roma e squadrista e deputato del PNF, propose un piano di rientro che passò per provvedimenti molto incisivi, tra cui l’eliminazione della tassa di successione o l’introduzione di un’imposizione personale complementare progressiva, con i quali riuscì prima a ridurre il deficit e poi, nel 1925, a decretare il raggiungimento del pareggio di bilancio.

Per gran parte dell’opinione pubblica si trattò in realtà di pura propaganda, poiché i buoni risultati sarebbero provenuti dalla cessazione delle uscite per la guerra, mentre per gli avversari di De’ Stefani gli attivi di bilancio furono frutto soprattutto di artifici contabili, come l’attualizzazione di storni di uscite risalenti a decenni dietro.

Inoltre, la gestione del debito pubblico in senso stretto fece segnare diversi flop.
Nel 1924 venne emesso un prestito da 5 miliardi per diminuire il debito fluttuante, ma la sua sottoscrizione di fermò al 30% del totale. Le conseguenze, in termini di fiducia da parte degli investitori e degli altri Stati, furono gravissime e i tassi sui titoli ordinari volarono al 6%.
Per rimediare a tale batosta, verso la fine dello stesso anno, furono emessi buoni postali di risparmio che produssero, tuttavia, effetti positivi soltanto nel medio periodo.

Nel 1925 De’ Stefani lasciò la guida del ministero a Giuseppe Volpi, già ministro di Giolitti, noto massone e imprenditore, prima nel campo elettrico e poi nel settore alberghiero, console in Serbia e poi Governatore della Tripolitania italiana, dove aveva appoggiato le dure repressioni ordinate dal generale Rodolfo Graziani contro i ribelli libici.
Volpi diede seguito alla politica di sgravi fiscali intrapresa dal suo predecessore e con lui, nel 1926, la Banca d’Italia divenne l’unico istituto ad avere il diritto di emettere moneta.

Poco dopo, nell’agosto dello stesso anno, Mussolini annunciò la rivalutazione della lira, operazione resasi necessaria perché lo Stato, con una moneta sempre più debole, non era più in grado di sostenere le spese per l’importazione di combustibili e materie prime in generale.

Gli stipendi dei lavoratori, inoltre, vennero tagliati con una forbice dal 10% al 20%, rendendosi davvero complicato per i ceti meno abbienti riuscire ad arrivare a fine mese, e con il regio decreto-legge n. 1.831 del 1926, definito “Prestito Littorio”, il governo attuò una conversione obbligatoria di titoli ordinari del Tesoro che si tradusse, di fatto, in una vera e propria confisca che colpì soprattutto gli imprenditori, coloro che all’epoca detenevano la più grande fetta di buoni statali a breve termine.

Il regime instauratosi e questi due ultimi interventi governativi innescarono una grave perdita di affidabilità per le istituzioni italiane, al punto che il Tesoro per un decennio non ebbe più la possibilità di emettere nuovi titoli.

L’anno successivo fu quello della fine del corso forzoso della moneta: il tasso di cambio lira/dollaro, nel 1927, risultò pari a 19 a 1.

La rivalutazione della lira e il maggior rigore finanziario durante questo periodo influirono sulla struttura del debito in modo simmetrico: i debiti consolidati quasi raddoppiarono, mentre il fluttuante si ridusse fin quasi ad azzerarsi.

Il debito pubblico, in generale, durante il primo periodo (1922-29) del governo Mussolini assunse un andamento ribassista, vanificato poi da fasi caratterizzate da perenne deficit.

Il periodo più tragico per le finanze statali fu il biennio 1933-34, durante il quale il disavanzo superò i 6.150 milioni.
Le uscite aumentarono e le entrate si contrassero, come per tutti i Paesi afflitti dalla Grande Depressione, ma ad aggravare la situazione italiana incisero tutta una serie di scadenze riguardanti la conversione del debito.
E l’anno successivo, quando le cose sembrarono imboccare una diversa tendenza, cominciarono le spese per preparare l’ormai imminente conflitto nel Corno d’Africa.
Nel giro di soli sei anni, complici una delle peggiori conversioni della storia e l’acutizzarsi della grande depressione, il debito pubblico fece registrare un aumento di quasi 20.000 milioni.

Ma la situazione non migliorò nemmeno negli anni successivi, in cui continuarono ad inanellarsi disavanzi a causa delle elevate uscite di matrice militare e dell’indirizzo autarchico assunto dall’economia. La guerra d’Etiopia, uno degli esempi storici più eclatanti, dopo aver messo a dura prova la finanza pubblica, spinse il Tesoro ad emettere nel 1936 un prestito forzoso, un vero e proprio prelievo a carico di tutti coloro in possesso di terreni e fabbricati.

I prestiti successivi, tutti di natura ordinaria, si attuarono attraverso l’emissione di titoli statali, accanto alle quali si accompagnarono i pagamenti differiti, vale a dire concessioni di liquidità da parte dei privati o da istituti di credito che non vennero, però, annotati come debito pubblico.

Il decennio che seguì fu caratterizzato dal secondo conflitto mondiale e da continui deficit sul bilancio pubblico. Lo Stato per finanziarsi ricorse soprattutto a debiti fluttuanti, che divennero, così, la voce dominante nella struttura del debito italiano.

Uscito distrutto dalla seconda guerra mondiale, il Paese riuscì a ridurre la spesa per gli interessi sul debito grazie all’enorme svalutazione della lira e ad un elevato tasso d’inflazione, che mantenne il rapporto debito/PIL costantemente sotto il 125%, picco raggiunto negli anni ’20, e con il crollo definitivo del regime fascista il rapporto debito/PIL continuò a ridursi in modo molto marcato.

Nessun commento:

Posta un commento