Il debito pubblico italiano trova le sue origini nell’unificazione politica del Paese.
Con la proclamazione del Regno d’Italia, avvenuta il 17 marzo 1861, si rese necessario raggruppare i vari ordinamenti amministrativi degli Stati preesistenti e già il 10 luglio dello stesso anno, con la legge n. 94, venne istituito il Gran Libro del debito pubblico.
Il 4 agosto seguì il riconoscimento dei titoli di debito degli Stati che avevano dato origine al Regno d’Italia e con la legge n. 174 essi furono iscritti nel Gran Libro.
I debiti, confluiti poi in un unico grande aggregato, riguardavano per il 57,22% il Regno di Sardegna, per il 29,40% il Regno di Napoli e Sicilia e per la restante parte gli altri Stati. Stessa situazione analizzandoli rispetto al numero di abitanti: l’ammontare pro-capite dei debiti degli Stati ante Unità d’Italia era per il Piemonte di 142 lire, per la Lombardia 56 lire, per la Sicilia 49 e per Napoli 63 lire.
I cittadini del Sud, in pratica, con l’unificazione del Paese si ritrovarono gravati degli oneri dei debiti degli Stati del Nord pur non beneficiando delle opere realizzate grazie all’emissione dei titoli di debito pubblico del Regno.
L’unificazione, in altri termini, non giovò affatto al Mezzogiorno, aggravando, anzi, quei ritardi strutturali di alcune aree di quella parte del Paese che già nel 1873 Antonio Billia, deputato radicale, identificò con la locuzione “questione meridionale”.
In generale, dall’unificazione del Paese alla prima guerra mondiale è possibile analizzare la finanza pubblica in tre diversi periodi.
Il primo è quello della Destra Storica al potere, con l’orientamento dichiarato di raggiungere il pareggio di bilancio.
Sono gli anni post-unificazione, segnati dalle conseguenza del conflitto con l’Austria e da importanti disavanzi di parte corrente.
Solo l’esercizio del 1865, in realtà, fece registrare il segno positivo, mentre il culmine del deficit si ebbe già l’anno successivo, quando toccò quota 543 milioni con le uscite pari al 188% delle entrate.
Dal 1867 si avviò una fase di risanamento dei conti pubblici grazie alla contrazione delle spese belliche e all’aumento delle entrate grazie all’incremento delle imposte dirette e indirette, che mise a dura prova la tenuta dei cittadini e soprattutto delle classi meno abbienti.
Ma nonostante tale orientamento, il debito triplicò in pochissimi anni e il rapporto debito/PIL passò dal 45% del 1861 al 95% del 1876.
Il secondo periodo si caratterizza per un’alternanza tra avanzi e disavanzi di bilancio ed è segnato dall’approdo della Sinistra al governo (1876), che, come negli anni recenti, eredita una situazione catastrofica in fatto di finanze pubbliche nonostante i proclami miranti all’austerità dei predecessori al potere.
Si assiste ad un periodo caratterizzato da bilanci di parte corrente con segno positivo, grazie ad un egregio equilibrio tra aumenti di spesa e incrementi delle entrate, ed un’inversione di rotta dal 1888 al 1893 a causa delle grosse spese per finanziare le campagne coloniali
Osservando il rapporto debito/PIL, esso crebbe fino a toccare quota 116% nel 1889, un’impennata dovuta principalmente a due fattori: l’abolizione del corso forzoso decisa già nel 1883 e l’ingente spesa nel settore ferroviario.
Il terzo periodo analizzato si caratterizza per un vero e proprio decollo dell’economia nazionale dovuto ad un quindicennio di prosperità e crescita con bilanci regolarmente in attivo.
È un periodo di riforme sociali e miglioramento della qualità della vita dei cittadini, mentre per la finanza pubblica decisivo fu il un ruolo della Cassa Depositi e Prestiti.
Si registrò, inoltre, un’enorme crescita nella raccolta del risparmio postale.
Fattori che spinsero ad un aumento del reddito e ad una contrazione del rapporto debito/PIL all’80%, sebbene il debito, all’alba della prima guerra mondiale, viaggiasse ormai a livelli altissimi.
Nessun commento:
Posta un commento